CENTOCHIODI
“Il fiume va lontano”. È il Po, che Ermanno Olmi costeggia e decanta di nuovo in questo suo ultimo lungometraggio di fiction, dopo il loro primo incontro, 15 anni or sono, nel documentario Lungo il fiume. E proprio al documentario Olmi ha deciso di dedicarsi definitivamente: con 76 anni e 60 film alle spalle, il grande regista si congeda dal cinema di narrazione con quest’ultima opera. Che è un film dalla semplicità disarmante, potente e ruvido come i grandi chiodi che il protagonista usa per violare i testi antichi della biblioteca universitaria di Bologna. La sequenza iniziale, che sembra l’incipit di un horror nostrano d’altri tempi, ci mostra il misfatto in un’inquadratura dall’impatto fortissimo: decine di volumi antichi trafitti da chiodi e conficcati nel pavimento, sui tavoli, sulle pareti. Come una strage. Il “professorino”, autore del delitto, insegnante di filosofia delle religioni giovane e carismatico, abbandona con questo gesto l’università e tutta una vita dedicata alla cultura; non crede più che i libri possano salvare il mondo, non crede che le religioni contengano la Verità, pensa piuttosto, come dice a una studentessa, che “tutti i libri del mondo non valgono una carezza”. Butta auto e portafogli e si ritira in una capanna sul Po. Qui il film prende i ritmi rilassati e appaganti della vita sul fiume: il professorino viene accolto dalla comunità locale (siamo a Bagnolo San Vito) che lo aiuta a provvedere a vitto e alloggio. Pesci siluro, piste per ballare il liscio, una panettiera innamorata e un po’ tonta, un piccolo battello che scivola sul fiume facendo riecheggiare Non ti scordar di me… immagini come queste (bellissime e quasi trasognate) trapuntano la trama lieve del film, rendendolo prezioso e genuinamente commovente. Il professorino è affascinante, parla forbito, riempie i bicchieri di vino ed emana saggezza per gli anziani del Po, che vedono in lui, buono e barbuto, un Cristo in terra. Un Cristo laico, che rifiuta i dogmi e le Verità imposte per scegliere invece la verità della natura, della solidarietà umana, della genuinità di affetti e tradizioni. Senza astrazioni, senza mistificazioni, senza orpelli. Di fronte all’imposizione operata non solo dalle religioni dogmatiche, ma da ogni tipo di cultura che si presenti come “giusta” e quindi limitante, il professore (ovvero Olmi) sceglie la libertà dell’uomo. In una scena gli abitanti del Po scrivono una lettera al Comune per non essere sfrattati: ognuno aggiunge una frase, semplice ma vera, e la sequenza, ben lungi dall’essere didascalica, diventa una piccola poesia (quasi tutta in dialetto mantovano): “Il fiume va lontano”; “Ho guardato nel fiume e ho visto i pesci ridere”… è questa la verità che interessa al regista. Olmi dice addio al cinema di finzione con un film a tesi, perfettamente aderente nelle scelte stilistiche al suo messaggio. Il maestro è ormai un passo oltre gli estetismi e la regia virtuosistica: dirige e fotografa in modo schietto e lineare, concreto ed efficace, con un sapore artigianale. Gli attori sono tutti non professionisti, mantovani doc, tranne il professore Raz Degan: col suo fascino mediorientale, risulta una scelta azzeccata (quanto invece lo è poco quella di farlo doppiare dalla voce profonda e impostata di Adriano Giannini, che suona troppo scollata dal contesto). Un testamento cinematografico che non ha nulla di funebre, bensì è vivo e pulsante e va lontano, come il fiume.
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