RITORNO AL FUTURO

di Giovanni Caiola / underdog1982@libero.it

Tempi di feroce e dissennato revisionismo i nostri, se persino gruppi come Yes, Genesis, Marillion ed Emerson Lake & Palmer – se adorate la musica di questa gente tenete presente che a casa mia non siete ben accetti, anche se uno strappo alla regola posso farlo nel caso siate belle e dolci figliole – sempre più spesso vengono citati nel ruolo di positivi metri di paragone. Eppure ancora non ci si è decisi a dare ad Herbie Hancock quel che è di Herbie Hancock: i tre dischi da costui pubblicati fra il 1971 ed il ’73 sono infatti tuttora schifati dalle enciclopedie del jazz come robaccia insulsa e commerciale. Nient’affatto vero! Se unire jazz ed elettronica può sembrare effettivamente (e molto spesso lo è) un’operazione artisticamente censurabile, la maniera in cui l’ha fatto colui che già si era meritato l’appellativo di “Mozart del jazz” è viceversa meritevole di essere ricordata come una delle vette musicali più alte raggiunte nel XX secolo da chicchessia. Ad onor del vero Mwandishi, primo pannello di quel prodigioso trittico, venne accolto molto bene dalla critica, che non poté che rimanere a bocca aperta ascoltando il ritmo infernale di Ostinato (Suite For Angela) e le dilatazioni oniriche e spirituali di You’ll Know When You Get There e Wandering Spirit Song. Ma l’essere intimamente legato ai suoi due “eretici” successori – medesimi i musicisti e l’ispirazione – ha fatto sì che anch’esso sia stato presto gettato e per molto dimenticato in una solo in parte metaforica discarica jazzistica. Tuttavia fu solamente con il successivo Crossings che la componente elettronica cominciò a farsi sentire, e già dal primo brano in scaletta: Sleeping Giant offre tastiere elettriche sospese su un intricato gioco percussivo sino a quando, attorno all’undicesimo minuto, il sintetizzatore di Patrick Gleason scatena l’apocalisse. Da lì in poi – per tutto il prosieguo dell’album – i musicisti improvvisano appoggiandosi coscientemente ad algide trame elettroniche, in un abbraccio inestricabile ed irripetibile. E che questo esperimento non venisse ripetuto lo avrebbero voluto molti critici e fans del jazz, sordi a tanta ammaliante bellezza. Ma il pianista chicagoano e compagni non si fermarono e diedero seguito a quell’azzardo con un disco ancor più arrischiato e fuori da qualsiasi canone dell’ortodossia jazzistica: immaginate, se riuscite, il Miles Davis del periodo elettrico – Bitches Brew l’album di riferimento – in costante assolo su una ritmica martellante imbastita per lui dai Kraftwerk e potrete cogliere una parte infinitesimale di quel miracolo che è Sextant. Dischi straordinariamente fuori dal tempo Crossings e Sextant (come lo è quel Music Of My Mind col quale Stevie Wonder, sempre nel 1972, inaugurava una serie di lavori che avrebbero rivoluzionato l’universo pop proprio grazie ad un uso avveniristico del sintetizzatore), e un po’ ci si stupisce e un po’ ci s’incazza al pensiero che furono dapprima dileggiati e poi soverchiati da tante boiate fusion.


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