VIDEODROME (VOL. 2)

di Dà(vide) Bardini

Parlare di cinema è un’operazione necessariamente posteriore alla visione del film stesso. Il concetto che voglio trattare è presente in tutta l’opera di Cronenberg e il caso di Videodrome è lampante: il meccanismo di “rovesciamento del genere horror”. Il canone cinematografico, quell’insieme di regole estetiche, narrative e filmiche, che “iscrivono” un film in un predeterminato “registro”, è ciò che permette l’esistenza dei “generi cinematografici”. Cronenberg è sempre stato considerato un esponente di spicco del genere horror: non è una definizione sbagliata, ma sarebbe errato considerarlo meramente un rappresentante di questo modello. La sua ricerca estetica ma soprattutto concettuale-filosofica manomette gli ingranaggi ben oliati dell’horror e crea qualcos’altro, qualcosa di assolutamente autoriale, sovvertendo la funzione del genere stesso. Nell’horror comune vi è un meccanismo imprescindibile in tre fasi e cioè: la destabilizzazione di un ordine preesistente per mano della componente orrorifica, l’azione dell’eroe, la ristabilizzazione dell’ordine. Per fare un esempio: paesino tranquillo, madre e figlia serene. A causa di un gioco trovato in cantina il diavolo si impossessa della bambina. Un esorcista si mette al lavoro e lotta con la componente orrorifica. La bambina viene liberata e l’ordine ristabilito. Stavo ovviamente parlando di un capolavoro dell’horror come L’esorcista ma se si ripercorrono con la mente tutti i film horror della storia del cinema si troverà, ovviamente talvolta più riuscita di altre, questa struttura. Nelle opere di Cronenberg avviene qualcosa di diametralmente opposto. I personaggi dei suoi film non cercano di allontanare l’orrore da sé ma, viceversa, portano quest’orrore ad ingigantirsi sempre più, collassando alla fine su se stesso. Si prenda in esame la pellicola più famosa del regista canadese; ne La mosca (1986), il protagonista, che per un esperimento mal riuscito si sta pian piano trasformando in un insetto, non cerca mai di tornare indietro, ma spinge anzi la mutazione al suo estremo, finendo per distruggersi. In Videodrome Max è ossessionato dalla stazione televisiva ed è assolutamente passivo nell’accettare di cadere nell’abisso da essa creato. La componente horrorifica nel cinema di Cronenberg, che sia rappresentata da un virus, da una mutazione o da uno stato di perdita d’identità, è sempre e comunque accettata dal protagonista e spinta da lui stesso al suo ingrandirsi nello spazio e nel tempo. Altra insubordinazione al genere horror è l’insicurezza a cui condanna il regista, lo smarrimento della verità oggettiva al quale la sinossi s’arrende istantaneamente all’inizio del film. I parametri comuni del canone horror vogliono, per motivare una situazione estranea o aliena alla normalità, la necessità d’aver ben presente qual è questa normalità a cui la stranezza s’oppone. Non può esistere una situazione “horrorifica”, se non nell’attrito, nel contrasto con una normalità iniziale che ricerchi continuamente la sua essenza di verità, risolvendo la situazione di disordine in cui è caduta. Cronenberg rovescia questo cliché: ci disabitua a credere meccanicamente in un valore di verità; nel suo cinema si perde da subito il dualismo verità/finzione. Per questo il cinema stesso, in Videodrome, viene, si può dire, risceneggiato, rimontato, quasi rigirato. Insomma, smarrita una realtà a cui affidare le nostre speranze di spettatori non possiamo dimenticare che anche noi abbiamo davanti uno schermo e il rischio di esserne risucchiati è enorme… Siamo, come Max, vittime e carnefici dell’immagine.


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