LE SEGNICHE OPERE - ARLECCHINO
DI MARIO PORTA

di Fabrizio Migliorati

Fino al primo luglio è possibile visitare la mostra Mario Porta. La verità del sentimento nei locali di Palazzo Menghini a Castiglione delle Stiviere. La grande monografica parte dai lavori giovanili fino ad arrivare a quelli degli ultimi anni, precedenti la scomparsa dell’artista castiglionese avvenuta nel giugno 2003. Nei lavori degli anni 1950-1953 vediamo la presenza di tematiche artistiche consuete come interni, nature morte, angoli della sua amata città. I piccoli tavoli, le mura degli edifici, i frutti però esistono, sono massicci, la loro è una presenza significativa. Su questo impianto Porta fa digradare una fortissima, interminabile pioggia di segni, tocchi di colore più o meno sostanziosi. Un normale tavolo con natura morta diventa una festa di paese, colorata, chiassosa, ubriaca. Questa tempesta coloristica segue numerose direzioni causate dall’intenso vento attuato dall’artista. Il dipinto indossa un altro abito: diventa una tavola-Arlecchino. Con gli anni Sessanta la segnicità lascia il passo alla pastosità. Il patchwork d’Arlecchino acquisisce un’intrinseca volumetria. Siamo sicuramente lontanissimi dal panorama dell’Informale, ma questo dialogo segnico-materico potrebbe indicare un’auscultazione da lontano del movimento aniconico. Con i dovuti distinguo del caso. Nel decennio successivo la scapigliatura coloristica si muove tra una picchiettatura decorativistica che sa di Simbolismo bidimensionale (Orto con innaffiatoio, 1973) e una pettinatura segnica massicciamente italica, dove i “riccioli ribelli” rientrano nell’intento del trompe-l’oeil. Difficile sintetizzare gli anni Ottanta secondo linee tematiche omogenee di sviluppo. L’apertura del decennio avviene sotto il segno della violenza coloristica, anticipata da un’opera come Vicolo Bertonfi del 1978. Le opere contengono i germi di un iniziale distacco dalla referenzialità diretta con la realtà. Vi è una pandemica invasione di segni che ora popolano la pellicola pittorica divenendone i padroni assoluti. Porta sta attraversando un confine molto pericoloso: staccarsi dal figurativismo vorrebbe dire sacrificare l’emozione (o, meglio, traslarla in una situazione sostanzialmente sconosciuta). Porta lo sa e striglia i suoi cavalli di razza riportandoli nel vecchio, e ben conosciuto, binario. Egli, quindi, tenta di sintetizzare l’ormai carnascialesca tavola-Arlecchino tentando una riduzione dei segni. Ma questi riemergono sotto altre sembianze (che siano delicati fiocchi di neve o pesanti tegole). Meritano una menzione particolare i disegni, gli schizzi e i carboncini prodotti nella sua carriera. Qui vediamo un artista più intimo, paterno, minimo. Il corpo ingobbito di una donna anziana intenta a sistemare della legna; un giovane assiso nei suoi pensieri, paladino delle angosce adolescenziali; un tenero e corposamente masaccesco fanciullo dormiente su di una sedia; lo zio Bepi indurito da un’esistenza massacrante; un pescatore che avanza nell’acqua, sicuro della sua sapienza ittica. Qui vige il silenzio. L’emozione è immediata e ci si presenta muta, senza il cocktail coloristico della sua opera di pittore. Non è un giudizio di valore. È, semplicemente, un’altra storia…


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