GLI OCCHI DI DANTE GRAZIOTTI
A ACRPENEDOLO

di Fabrizio Migliorati

Dal 14 al 29 aprile si è svolta nel Palazzo Deodato Laffranchi di Carpenedolo la retrospettiva di Dante Graziotti, classe 1919 e orgoglio locale. L’altissimo numero di lavori esposti soffriva della relativa ristrettezza dei locali adibiti andando a creare un clima un poco soffocante. Le sue pitture traslucide dipingono paesaggi modulati dalla ricca composizione geo-morfologica del terreno e, annegati in nevicate chagalliane, si innestano più o meno modeste figurine di bruegheliana memoria, depauperate dall’impianto burlesco e feroce e reinserite in un contesto rustico-bucolico, eminentemente lombardo. Sono angoli di Carpenedolo resi con una minuzia straordinaria. Un carro trainato da un cavallo che taglia obliquamente la piazza; comari che passeggiano e si incrociano; un cane che abbaia mentre, in primo piano, un bambino gioca con la ruota, antico passatempo nostrano. Carpendolo come Venezia: affascinante, ricca, elegante ma soprattutto chiassosa come una grande città. L’amore per il proprio paese trasfigura e innalza lo status dell’abitato e la piazza assomiglia così tanto ad un foro romano. Si diceva di Venezia, e non per caso. La città lagunare è un altro dei temi cari a Graziotti. In un lavoro, essa è raffigurata secondo il pennello di un tardo vedutista inebriato dai sentori del disfacimento visivo di stampo impressionistico. In ogni caso, sembra una Venezia classica, riposante. E qui avviene lo scarto. Strategicamente, i curatori della mostra hanno posto, dinnanzi a quest’opera, un eccentrico assemblage veneziano dove i più famosi simboli cittadini sono riuniti in una sintesi che, più dei medaglioni medievali, sa di sapore futuristico. Meravigliose sono le sue nature morte. Vasi traboccanti di varietà vegetali, colorate e gioiose, sono festival di forme e colori dove l’antico escamotage del cartiglio vede una locale reinterpretazione moderna. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, Graziotti scopre l’immenso Giorgio Morandi e queste composizioni si incupiscono, il color bruno della carta diventa un elemento fondamentale per il posizionamento degli oggetti. Le brocche, di tenui tinte pastello, si dispongono ordinate su di un piano mai così incerto. Come nell’artista bolognese, gli oggetti si collocano su di una o due linee, come calciatori in barriera prepotentemente opachi, negandoci, dunque, il piacere della riflessione. Ma rispetto a Morandi abbiamo uno spostamento: la pattuglia oggettuale ha un alto gradiente di provvisorietà e, infatti, i soggetti stanno scomparendo sotto i nostri occhi. O forse è proprio il processo contrario e si stanno dando a noi? Negli acquerelli ritroviamo forse il suo momento più bello ed originale. Case, ponti, alberi campeggiano quasi sospesi sul fondo ocra della carta: sono elementi slegati, quasi affievoliti dalla mancanza di comunicabilità. Raramente riuniti da una piccola striscia di terreno che li richiama all’ordine terreno. Il segno quasi accademico degli inizi si stempera e lascia il passo alla macchia.


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