THE ZODIAC


5 film in 10 anni (Alien³, Se7en, The game, Fight club e Panic room) che comprendono il terzo capitolo di una delle più celebri saghe di fantascienza di sempre e due cult assoluti degli anni ‘90: questo il curriculum di David Fincher (enfant prodige proveniente dai videoclip) nel 2002, anno della sua penultima fatica per il grande schermo. Dopo cinque anni di assenza, Fincher è tornato con Zodiac, la storia vera di un serial killer che terrorizzò gli Stati Uniti per più di un decennio e il cui caso non è mai stato ufficialmente risolto. Un thriller, di nuovo, come tutti i suoi lavori precedenti (con l’eccezione del fantascientifico Alien); ma molto diverso da ciò cui il regista aveva abituato gli spettatori. Il killer Zodiac rivendicò numerosi omicidi avvenuti tra gli anni ’60 e ’70 in California, inviando lettere cifrate alla polizia e ai quotidiani di San Francisco. Minacciò di prendere di mira i bambini a bordo degli scuolabus, seminando il panico e costringendo le autorità a far scortare dalla polizia quei mezzi. Dopo aver tenuto in scacco la città e aver occupato le prime pagine dei giornali per anni, Zodiac sparì senza che si fosse mai trovato un colpevole, e fu ispirazione per molti killer cinematografici, tra cui quello del “caso Scorpio” ricalcato proprio sulla sua figura. Fincher era uno di quei bambini che andavano a scuola scortati dai poliziotti, e forse anche per questo si è preso a cuore la realizzazione di questo film, che segna la svolta della maturità nella sua produzione. Desaturando le atmosfere cupe e inzuppate d’ombra delle sue opere precedenti (ma l’oscurità la fa da padrona, sempre, quando Zodiac è in azione), Fincher realizza un film lungo e tortuoso quanto l’indagine che rappresenta. Un’indagine laboriosa, difficile, inceppata dai meccanismi burocratici delle contee californiane e aggrovigliata dal succedersi dei responsabili che la dirigono; un sofferto passaggio del testimone che Fincher snoda attraverso le due ore e mezza del film, in cui i tre protagonisti si contagiano a vicenda con l’ossessione per il killer senza volto. Prima il cronista Paul Avery, poi il detective Toschi e infine il vignettista Graysmith (autore del libro da cui è tratto il film e di una personale teoria sull’identità del killer, che Fincher evidentemente abbraccia), si succedono sullo schermo, agguerriti e infine sconfitti dal passare degli anni, dall’interesse pubblico che cala col diminuire degli articoli, dall’accumulo di prove e indizi che finiscono per annullare se stessi. Il ritmo non è frenetico, l’estetica di Fincher non è più quella graffiante e ammiccante del videoclip (e dei suoi film più riusciti): l’incubo non è più allucinazione febbrile ma fredda cronaca; le vittime sono ferite sì, ma a dissanguarsi dolorosamente è l’indagine stessa, mentre si trascina. Il film, che ha il respiro di certo cinema d’impegno civile anni ’70, è (anche) una riflessione sul rapporto tra cinema e investigazione; restituisce a quest’ultima la sua dimensione autentica, drammaticamente meno facile e glamour rispetto a quella dei film polizieschi. Memorabile, in questo senso, la scena in cui il detective Toschi va al cinema a vedere Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo, e assiste amareggiato allo spettacolo di Clint Eastwood che risolve sullo schermo il “suo” caso. Fincher fa il punto sulla sua filmografia e sul genere poliziesco oggi, e lo fa con un grande film.


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