UN’ASCENSIONE SUPREMA
Chissà se il 17 di luglio del 1967, un lunedì se i miei calcoli non sono errati, il vento e la pioggia sferzarono la terra come stanno facendo proprio nel mentre pongo mano a questo articolo? Forse anche quel giorno gli elementi si scatenarono, per dare adeguata e dolente celebrazione alla definitiva dipartita di quell’uomo – all’apparenza un semplice uomo di colore nato a Hamlet, nel North Carolina, poco meno di quarantuno anni prima – che più volte era stato capace, col suono della sua musica, di spingersi così intensamente al centro del mondo e della vita da sembrare prossimo a distaccarsi da entrambi per rifugiarsi nello spazio interstellare. Una musica, quella di quell’uomo tanto timido, gentile ed introverso, che scava negli antri più profondi dell’anima nel mentre cascate di note precipitano fragorosamente nel cuore, nel cervello e nelle gambe. Note che – sputate e risputate da un sassofono (ora tenore, ora soprano) grondante saliva, sangue, lembi di materia grigia, frattaglie – si fanno sempre più potenti e maestose, fin quasi a stordire in un gioco di vuoti e di pieni, di spazi illimitati e di anguste gole, di crateri e di guglie. Musica che non ha barriere, non imita tetre e gravose regole, travalica i tempi e i luoghi e i popoli: un perenne rimodellare che continuamente crea l’insondabile novità. Fuoco vivo che brucia e abbaglia chiunque tenti di accostarvisi. Articolati brandelli di ritmica melodia (una contraddizione in termini, pensate? Lasciate ogni speranza di connessione logica voi ch’entrate! Qui si va nel regno delle ragioni del cuore!) che azzannano il cervello sino a farlo sanguinare, e mai emorragia è sembrata così dolce e fraterna. Armoniosi respiri di un sogno d’amore sfiorito e di un gioco del cuore appena sbocciato (Naima e Alice). “Fluttua come una farfalla, pungi come un’ape”: c’è chi l’ha fatto fra le corde di un ring, e chi l’ha messo in pratica sulle assi di un palco. Anche e soprattutto il piccolo palco di un qualsiasi locale dall’aria fetida ed asfissiante, per un centinaio di astanti rapiti ed ingolositi da quella musica indescrivibile. Una vita densa ed anche difficile redenta da una passione senza fine, la passione per quelle note con le quali tutto può essere detto e mostrato. Persino l’indicibile; persino l’invisibile. Allora l’unica risorsa è quella di non fermarsi mai: tentare e ritentare, tra ricordi d’Africa e fantasmi del Nuovo Mondo e visioni d’Oriente. Finché i polmoni ne hanno la forza. E quel giorno d’estate di quarant’anni fa la forza non l’ebbero più. Ma quell’uomo e il suo sax erano comunque riusciti ad arrivare oltre l’orizzonte, dove più nulla è distinguibile, dove a regnare è il suono: il suono del Silenzio e del Caos. E in quel frammento di Silenzio e di Caos sta il melodioso soffio del suo nome: John Coltrane.
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