I SOGNI AL DI LA’ DEL POTERE

di Dà(vide) Bardini / ibridumb@yahoo.it

Il film si svolge in un luogo non definito in un tempo non definito. L’unica informazione che ci viene data è all’inizio della pellicola: “8:49 a.m. da qualche parte nel ventesimo secolo” e questo sembra essere l’unico appiglio alla realtà che il regista, l’ex Monty Pyton Terry Gilliam, voglia fornirci. L’ouverture è una carrellata sul mondo: una serie di inquadrature che calano lo spettatore, e non è un’operazione semplice, all’interno dell’assurda città dove si svolge la storia. Quella che potrebbe essere Londra è una città sotterranea con una struttura metropolitana di ispirazione espressionista. Tra i grattacieli soffocanti e anonimi che celano il sole e che creano lunghe ombre affilate, brulicano automobili monoposto grigie e inaffidabili e gli esseri umani che sembrano insetti kafkiani dispersi nella soffocante ir-realtà. E là sopra, negli ultimi piani del buio del cielo, svettano, imponenti e gotiche, le cattedrali del potere dove, come entomologi, i politici coadiuvati da tecnologia e burocrazia controllano e studiano gli individui. Piccola rotella del meccanismo è il protagonista Sam Lowry (Johnaton Price), un impiegato all’archivio cittadino che si trova coinvolto, a causa di un errore dei computer, nell’arresto di un innocente (esilarante la sequenza che racconta l’errore informatico: uno scarafaggio cade nella macchina da scrivere che sta compilando un modulo d’arresto per un tale Tuttle col risultato di tramutare il nome in Buttle, scarafaggio appunto) e nella disperata ricerca di una donna (Katherine Helmond) che sogna insistentemente. È solo attraverso i sogni che può sfuggire ai contorti meccanismi del potere, alla macchina burocratica, all’occhio, insomma, del “Grande Fratello” Gilliamiano. È in quella condizione onirica, a mò di surrealismo, che ci si può liberare dalle zavorre dell’educazione e dalle imposizioni del vivere civile. L’ex Monty Pyton de “ll senso della vita” e “I banditi del tempo”, si confronta con la lucida e spaventosa visione di un futuro tanto improbabile quanto vicino; parla di un mondo surrealistico-fantascientifico e antistorico, dove è proprio la storia, ormai dimenticata e lobotomizzata, la vittima e insieme il carnefice della vita sociale; ne parla cercando forse di scacciare la sua angoscia verso la possibilità che un giorno, svegliandosi, ci si trovi dentro. È in questa paura e nella voglia d’esorcizzarla che si spiega la fragile intimità e nello stesso tempo l’irriverente violenza della pellicola; un monito a-temporale verso i rischi e i pericoli di una lenta e ingloriosa fine della democrazia, di una vorticosa ovattatura del vivere occidentale specchiata nella chirurgìa estetica intesa come assolutizzazione e formalizzazione dell’apparenza. Ciò che appare deve essere perfetto, un calco del desiderio mentale di perfezione, al punto da riuscirci oppure soccombere. Tutto appare nel film, in modo sfrontato, talvolta ridicolo. Si pensi all’amica della madre del protagonista, alle prese con le complicazioni (delle complicazioni) legate alla sua operazione; oppure ai separé che vengono posti nel ristorante per impedire ai commensali di “vedere” le conseguenze di una bomba all’interno del locale stesso. Parlare di cinema senza vederlo è impossibile, o comunque privo d’interesse, e questo, ovviamente, vale per la totalità dei film. Terry Gilliam più di altri però, riesce da 30 anni nell’ardua impresa di compiere un balzo intellettuale verso un’idea di cinema come strumento e insieme fine conoscitivo, e le suggestioni visivo-intellettuali che ci deflagrano davanti agli occhi hanno insieme la potenza concettuale dell’autore e la brillantezza del genio. Un capolavoro senza tempo.


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