VEXATIONS
Una produzione Diabolus in musica. Progetto di Leonardo Zunica e Paolo Barbi. Apparato scenico di Paolo Cavinato - Musica di Erik Satie - Immagini e video di Elena Montanari, Marco Rodolfi, Massimiliano Sorrentini, Micol Ferretti, Paolo Barbi, Paolo Cavinato, Paolo Perina, Vito Magnanini, Roberto Piccinina, Rocco Osgnach, Fernando Lafelli.
Per suonare questo motivo 840 volte consecutivamente a se stessi, sarà utile prepararsi in anticipo, e nel silenzio più assoluto, per una seria immobilità. Questa la sola indicazione di Erik Satie al pianista. Il tema e le due armonizzazioni, che di per sé poco o nulla hanno di originale, devono essere ripetute ad un tempo “très lent”, molto lento, fino a quando l’ottocentoquarantesima volta non sia giunta al termine. Questo significa per lo spettatore, e per gli esecutori, partecipare ad un vero e proprio atto eroico, o di fede, che può durare dalle dodici ore ad un’intera giornata. Ecco la chiave di volta. La ripetitività estenuante che gira intorno a se stessa, fa ironicamente il verso a quella musica “germanica” che Satie tanto odiava. La musica wagneriana che tende all’infinito, senza mai un accordo risolutivo, è rovesciata in una filastrocca meccanica bastevole delle sue rade note, indipendente da un contesto drammatico, o da una qualsivoglia interpretazione psicologizzante. Una critica che tocca anche il Perepetuum mobile, genere molto in voga nel diciannovesimo secolo, che ripeteva virtuosisticamente brani separati un indefinito numero di volte.
La “seria – o seriosa – immobilità”, le numerose ripetizioni tuttavia definite e aventi un numero preciso, un tempo lento contrapposto ai rapidi movimenti del Perepetuum mobile, ne fanno certamente una parodia. Se il sarcasmo e l’ironia di Satie, portano inevitabilmente a leggere Vexations come uno schiaffo geniale e derisorio, è altrettanto necessario ricordare che la partitura rimase muta per settant’anni dalla sua stesura. Composta nel 1893 venne eseguita solo nel 1963, anno in cui John Cage vi inciampò involontariamente. È noto quanto il compositore americano fosse attratto dalle forme di spiritualità orientale, dalla meditazione e dall’esperienza circolare e ipnotica che da questa deriva. Inutile dire che Cage rimase entusiasta. Vexations prende le sembianze di un mantra. Il pianista intona una preghiera, e non ha bisogno di aver fede in quello che sta facendo, non importa se è confuso o imbarazzato. Nessuno lo obbliga a credere, o a pensare in qualcosa quando comincia. All’inizio conta solo la quantità. Poi, più avanti, questa diventa automaticamente qualità. Le forme orientali di pensare il mondo sanno bene che qualsiasi nome di Dio, o meglio, un nome qualunque, ha questo particolare potere autoattivo, che comincia a funzionare subito dopo averlo messo in moto. Se ci si imbatte spesso in questo consiglio, è lecito credere non sia una coincidenza. Religiosi così addentro, e niente affatto fasulli, continuano a sostenere che se ripeti senza sosta il nome di Dio qualcosa deve succedere. In India, ad esempio, dicono di meditare sull’«Om». È la stessa cosa, il risultato è identico. Riesci a vedere Dio. Sono queste le “vessazioni” che il pianista, o i pianisti come in questo caso, infliggono a se stessi come farebbe un penitente. È incredibile ritrovare un’atmosfera simile nelle parole di Alfred Cortot a commento delle Gnossiennes di Satie.
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