UN FILM COSI’ “ULTIMO”

di Dà(vide) Bardini / ibridumb@yahoo.it

Enrico Ghezzi, durante una delle sue cose (mai) dette, all’inizio di una puntata di Fuori Orario su Tarkovskij disse, per Sacrifico, di essere un film “davvero ultimo”. Mi arrovellai su questa dichiarazione per un lungo periodo di tempo chiedendomi come un film, così come un’altra opera d’arte, possa dare l’impressione di essere un testamento lasciato dall’artista, nonostante sia esso inconscio della sua morte durante la composizione dell’opera. I casi si sprecano: il più accattivante è forse quello del futurista Umberto Boccioni, che poco tempo prima della sua morte disegnò in un suo famoso quadro, La città che sale (1911), la furiosa impennata di un cavallo in mezzo ad alcune persone; fu proprio un cavallo imbizzarrito che lui si vantava di saper cavalcare, cinque anni dopo, ad ucciderlo. Cosa vuol dire dunque “film ultimo”? Che rappresenti il manifesto di un artista? Che significhi la fine di un tragitto tracciato dall’opera di tutta una vita? Ancora non so cosa Ghezzi volesse dire in quell’occasione; quel che so è che la sensazione che Sacrificio, e nel nostro caso Eyes Wide Shut, fossero film “ultimi”, in un qualche oscuro modo l’ho avvertita anch’io. Quando si parla di Kubrick, si entra in un campo tanto mietuto quanto nuovo, tanto conosciuto quanto pericoloso. Considerato da molti addetti ai lavori il più importante regista di sempre, da alcuni un freddo tecnico, da altri ancora un assoluto genio, Stanley Kubrick fu senz’altro un riformatore del cinema. Ricercatore della forma che compone il cinema (e il sogno che questo prodigio tecnico-artistico evoca ancora), studiò a fondo il rapporto spettatore-immagine e le implicazioni che esso creava nel mondo del subconscio. Un intellettuale d’altri tempi, uno studioso a tutto tondo e, soprattutto, un affamato conoscitore. Creò un cinema nuovo, inventando la forma stessa del meccanismo audiovisivo; costruì obiettivi, supporti per la cinepresa, e certi movimenti di macchina, montaggio e fotografia diventarono inconfondibilmente kubrickiani. Eyes Wide Shut, uscito nel 1999, fu il suo ultimo film, che, a causa della sua prematura morte, Kubrick non riuscì mai a vedere ultimato. È la storia di una coppia (Kidman-Cruise) che dopo nove anni di matrimonio vissuti negli agi della pacchiana borghesia newyorkese, si trova catapultata in una profonda ed imprevista crisi d’identità che fa barcollare pericolosamente una stabilità fino a lì mai messa in discussione. Il film, magistralmente diretto, è costruito con lunghe carrellate che veicolano i corpi attoriali tra le scenografie sfarzose degli interni e le sporche strade cittadine colorate da una fotografia meravigliosamente viva che accompagna i protagonisti scandendo le loro turbe mentali. La fotografia è uno straordinario teatro di luci, un’avvolgente dicotomia ai limiti della rottura figurativa; straordinaria la sequenza della lite tra i due che porta allo strappo del loro rapporto, con i corpi che, caldi nella luce gialla del vicino atto sessuale sfiorano, smembrando pian piano la loro carne, il blu glaciale dello sfondo che preannuncia la distruzione della calda e accogliente serenità. I percorsi, quelli di Bill (Cruise) e Alice (Kidman), verso una consapevolezza pura del proprio io, del proprio corpo e, più importante, del proprio occhio, sono paralleli. Il viaggio della donna è però interiore, disancorato da una benché minima proiezione mentale di ciò che essa racconta; quello del marito è un percorso empirico, che noi vediamo sullo schermo e che seguiamo nel suo vortice di perversa sur-realtà. Entrambe le strade culminano con l’unica soluzione possibile, con l’unica via d’uscita dal vortice di delirio paranoico che ha inviluppato Alice e Bill, con l’unica riflessione concepibile… È interessante che l’unica ed ultima parola con cui uno dei più grandi intellettuali di sempre ci lascia sia, semplicemente,”SCOPIAMO!”


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