GLI SGUARDI DI FAUSTO DE STEFANI

di Luigi Chesini

Lo incontro sotto l’arco della piazza di Cavriana e poi lo seguo fino alla sua casa a cottage poco lontano. L’aspetto di De Stefani è sportivo, con la consueta lunga barba, un po’ brizzolata e gli occhi timidi ma penetranti. Nel giardino ci si sente subito a proprio agio circondati da oggetti che ricordano l’alpinismo e l’Himalaya, un tocco esotico in un ambiente estremamente familiare, il tu è d’obbligo.
La prima domanda è ovvia, Fausto, come ti sei avvicinato ad uno sport come l’alpinismo?
A 18 anni, sostanzialmente per curiosità, io nato ad Asola in piena pianura padana. Non considero però l’alpinismo uno sport ma più una filosofia di vita, non ho mai fatto dell’alpinismo una professione, non ho mai voluto fare la guida alpina, non ho mai accompagnato clienti per denaro. Le certezze e la presunta saggezza con l’età anziché accrescere, sono andate via via sfumando lasciando spazio a maggiori dubbi. Ho tentato di dare un senso alla mia vita, l’alpinismo mi ha aiutato a capire veramente cosa significa, credo che siano le emozioni a contare e il mio lavoro da artigiano non me ne dava più. Sentivo l’ipocrisia di un società che stava andando sempre più verso l’apparenza e non mi sembrava più di appartenerle.
Come giudichi il turismo di massa?
Io ho sempre considerato la montagna come “l’ultimo regno del silenzio”, e, in generale, chi si identifica col turismo di massa cerca la confusione. Il problema è il rapporto o, per meglio dire, il non rapporto con l’ambiente naturale: lo si vede come lo sfondo di una sceneggiatura. Gli amministratori dei luoghi turistici di massa, pur di assecondare i fruitori-clienti delle loro zone, ignorano il valore naturale della montagna e vi trasferiscono modelli comportamentali delle metropoli. La straordinaria capacità della montagna è quella di farti meditare. In realtà la conoscenza e l’educazione sono fondamentali per entrare in sintonia con qualsiasi ambiente e la natura è una scuola essenziale.
Come viene amministrato il territorio delle colline moreniche?
Male, chi ha il poter decisionale sull’assetto del territorio, pur conscio delle caratteristiche specifiche dell’ambiente che lo costituisce, spesso non conosce le radici culturali che lo hanno prodotto. Eugenio Turri, appena scomparso, disse che questo è un luogo “benedetto”, unico, e io, da laico, non posso che concordare. Si tratta di una zona “appetibile”, vicino al Lago di Garda e all’autostrada. Sradicare una siepe, sostituire un campo coltivato o un prato arido dove crescono le orchidee con una discarica e tonnellate di rifiuti è visto come una valorizzazione e non come distruzione. Poi la gente si fa ingannare da una “festa dei fiori”. L’identità di un luogo è determinato non solo dalle specifiche tecniche che lo caratterizzano, ma anche dai valori che l’hanno sostenuto gli interventi anche minimi che ne hanno determinato l’aspetto. Ora vengono portati avanti solo progetti per “consumare” il territorio, non viverlo. Abbiamo una classe politica di “bottegai” che spesso non si pongono il problema delle conseguenze delle loro scelte. La politica non è vissuta come alta amministrazione della cosa pubblica. La progettazione e la realizzazione di un parco locale non può limitarsi ad una posa di tabelle di direzione, ma deve assumere responsabilità precise in merito alle norme che regolano la tutela degli ambienti e la possibilità di fruizione da parte dei cittadini. E’ un involucro vuoto che va riempito al più presto, di contenuti verificabili. Ad esempio, mi sono sentito umiliato di fronte agli antichi sentieri sbarrati da improvvise quanto incongrue recinzioni. Cosa prevede il regolamento del parco per eventi di questo tipo? Le regole devono dare delle indicazioni precise che valgano per tutti.
Come conciliare allora la tutela con lo sviluppo?
Se per sviluppo intendiamo un progressivo incremento delle attività produttive, un ulteriore aumento delle concentrazioni abitative o un’agricoltura maggiormente intensiva, credo che non sia possibile. A mio avviso, non può esistere una tutela del territorio collinare abbinata ad uno sviluppo sia pur ecosostenibile. E’ forse giunto il momento di fermarsi e riflettere o forse anche, con un po’ più di coraggio, fare un passo indietro. In Nepal 20 anni fa ogni oggetto era biodegradabile, ora tutti usano la plastica. Bisognerebbe trovare degli equilibri e non perdere il senso della misura. La domanda fondamentale da farsi è “cosa basterebbe per essere felici?”. Vedo molti giovani andare alla ricerca di qualcosa che non troveranno mai, gli status symbol divengono importanti anche per gli anziani e li fanno diventare acidi. Lo stesso vale anche per molti alpinisti che non riescono ad invecchiare e ad accettare i propri limiti. Questo porta a barare nelle prestazioni come nello sport professionistico. Chi compie un illecito è già sconfitto con se stesso in partenza.
Cosa ti è rimasto dell’impresa sullo spigolo nord del K2?
Andare in un luogo solo per raggiungere la cima è riduttivo. Non amo definire la spedizione dell’83 come impresa o conquista, ho cercato di evitare il superomismo nell’alpinismo, conta solo chi ha la volontà di fare certe cose. Io e Sergio Martini abbiamo raggiunto, in cordata, 11 cime degli 8000. Passare un bivacco a 8500 metri senza sacco a pelo o tenda è un’incognita che puoi affrontare solo grazie alla forza di volontà e alla voglia di vivere.
Come è cambiato l’alpinismo negli ultimi decenni?
A me piace una forma di alpinismo più istintiva, non iperorganizzata o nazionalistica, dove ci sia veramente l’emozione della scoperta. Odio i sentieri troppo segnati, non dovrei dirlo, ma con essi c’è stata una banalizzazione dell’esperienza. La spedizione del 1954 era di stampo scientifico-militare. Stimo i partecipanti, i quali si sono anche arricchiti, ma a Mahdi (uno dei portatori hunza delle bombole d’ossigeno, n.d.r.) è stata data solo una medaglia d’argento e un diploma del Presidente della Repubblica. Per la rievocazione del 2004 sono stati spesi 2,4 milioni di euro, ma non si sono trovati i soldi per risarcire le famiglie dei 4 portatori annegati, che erano senza assicurazione. E’ una forma di alpinismo coloniale, inaccettabile. Nella presentazione della rievocazione inoltre sono stati usati termini come “amor di patria” e “spirito di corpo”, di sapore vagamente fascista più che alpinistico.
Di cosa ti occupi di questi tempi?
Faccio delle lezioni per le scuole materne e per le prime classi delle elementari. I bambini oggi sono lontani dalla natura, alcuni trascorrono i fine settimana nei centri commerciali. Poi faccio conferenze e mostre fotografiche (il libro fotografico Al di là delle nuvole sarà una mostra che aprirà a Desenzano dal 25 Giugno, presso la Galleria Civica del porticciolo) . Ho inoltre collaborato alla realizzazione di due scuole in Nepal la Rarahil Memorial School e una scuola professionale a essa collegata, vedere anche il sito www.senzafrontiere.com.


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