LAST DAYS
La fine in piano-sequenza di Kurt Cobain
All’interno di una delle più interessanti edizioni di Cannes è in gara l’attesissimo film Last Days. “E’ solo ispirato a Cobain; è un film sugli ultimi giorni di una rock star”, e ancora… “Ai fans dei Nirvana non piacerà”. Così rispondeva Gus Van Sant, il regista, a chi gli chiedesse le presunte affinità del suo film con la vita della defunta rock star di Seattle. Personalmente mi trovavo tra due fuochi: adoro da sempre i Nirvana, il gruppo trascinatore della mia pre e post-adolescenza e, d’altro canto, amo il cinema e gli ultimi lavori di Van Sant. Last Days è girato magistralmente, lunghi e quasi immobili piani-sequenza trascinano il corpo del protagonista da un vuoto d’azione ad un altro. Esso infatti barcolla per la maggior parte delle riprese dentro il quadro della cinepresa, senza mai compiere veramente nulla, come se tutto fosse sia già scritto, come se Blake (questo il nome del protagonista nel film) debba solo attendere un giorno prestabilito per farla finita. La somiglianza con Kurt, talvolta, è totale e passa attraverso le sue maglie a righe slavate, gli occhiali scuri, il vestito da donna o il cappello da cacciatore. Mi sento d’aggiungere che a nulla servirebbe il vestiario se ad indossarlo non ci fosse un bravissimo Michael Pitt (già protagonista in The Dreamers) che nel tentativo di imitare Cobain sembra talvolta diventarlo. Il corpo magrissimo, secco e leggermente gobbo, i capelli sporchi, arruffati e davanti agli occhi…Quando però attore e mito sarebbero chiamati ad incontrarsi, ovvero in presenza delle musica, Van Sant decide di scinderli facendo imbracciare a Pitt una chitarra destrimane (Cobain era notoriamente mancino). Stupenda la scelta di far risaltare i suoni dell’ambiente; il fuoco che scoppietta, i passi sul legno, il rumore dei sospiri e della sigaretta che si consuma. Infondo essi, altissimi e presenti in tutto il film, rappresentano una sorta di panta rei eraclitiano; tutto scorre, ogni cosa continua, indifferentemente, a divenire e questo movimento urla la sua esistenza con il rumore. Cobain/Blake ne pare talvolta divorato e quando anche lui partecipa al concerto di suoni, lo fa ansimando, parlando a bassa voce oppure urlando, ma soltanto all’interno di una canzone improvvisata. La musica come unica dimensione possibile di rivalsa, anche su se stesso. Anche i suoni, come ogni particolare del film, aumentano la portata della sensazione di solitudine del protagonista, una delle principali cause, secondo Van Sant, della tragica fine della sua vita. Bellissime le intrusioni di personaggi irrilevanti che si riempiono la bocca d’inutili questioni rappresentando probabilmente l’idea totalizzante che s’era fatto Kurt degli uomini: Inserzionisti e Mormoni. Commovente (e parlo per esperienza personale) il lunghissimo piano sequenza che inizia con l’entrata barcollante nella sala prove e termina con la rottura della corda della chitarra e la fine della melodia. In ultima analisi, credo quindi che un film biografico su Cobain e i Nirvana, stile il The Doors stoniano, manchi, ma credo anche che Last Days abbia, oltre alla regia benfatta, la sensibilità e l’empatìa necessaria per dialogare con un ragazzo che abbia vissuto aggrappato a Something in the Way, Heart-shaped Box o a Smells like teen Spirit. Non posso dunque che chiudere come chiuse lui… Peace, Love, Empathy.
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