INTERVISTA A SANDRO MEZZADRA

di Luca Cremonesi e Leonardo Tonini

Il Prof. Sandro Mezzadra, che ringraziamo per la disponibilità dimostrata, insegna Storia del pensiero politico contemporaneo e Studi coloniali e post-coloniali nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Diritto di fuga (Ombre Corte); il numero 15 della rivista Derive e Approdi dedicato interamente agli studi post-coloniali; il volume Oltre Genova che, come altri testi, trovate nel nostro sito (www.civetta.info) nell’area download. Sandro Mezzadra è uno studioso di fama internazionale. Voce autorevole e stimata nell’ambito degli studi Post-coloniali, collabora con vari quotidiani, mensili e settimanali e con varie riviste tra cui Multitudes e Derive&Approdi. I suoi interventi sono tradotti in varie lingue. Noi lo ringraziamo ancora una volta per aver accettato il nostro invito. È possibile ascoltare alcuni suoi interventi in formato mp3. I file si possono scaricare nel nostro sito www.civetta.info, nell’area download.

Sandro, tu sei uno studioso dei movimenti postcoloniali, cioè segui e analizzi gli spostamenti degli esseri umani sul pianeta, all’interno dello stesso Stato, tra Stati diversi e tra un continente e l’altro. Studi le dinamiche che avvengono quando un uomo che si sposta incontra degli ostacoli o produce, con il suo semplice movimento, degli attriti. In particolare guardi agli effetti di questa rivoluzione mondiale a piedi nudi (come la chiama Düvell) sul nostro modo di pensare e di agire politico. Un’indagine a tutto campo e a raggio vastissimo, che implica una tale quantità di problemi che è impensabile soltanto sfiorare in queste pagine. Io, qui, volevo prendere il problema da un altro punto e in maniera molto più modesta. Andiamo nell’individuale, rimanendo però, per così dire, in superficie. Perché, secondo te, non sopportiamo il diverso? Perché oggi la nostra soglia di ascolto nei confronti di ciò che non ci piace è così calata? Eppure, l’esotico, l’etnico vanno di moda. A me sembra che non sopportiamo più l’altro, a cominciare dal nostro vicino che taglia l’erba la domenica mattina. Come possiamo nei fatti contrastare quest’atteggiamento?

Non saprei dire se oggi la nostra soglia di “sopportazione” per il “diverso” sia davvero così calata. Vedendo la cosa in prospettiva, mi pare che l’ultimo secolo ci offra abbondanti esempi di situazioni storiche in cui l’“altro” non se l’è passata particolarmente bene. Evitiamo pure di parlare delle situazioni estreme, delle catastrofi che hanno segnato il Novecento. Restiamo a contesti a noi geograficamente e storicamente vicini, caratterizzati da movimenti migratori significativi. Pensi che un operaio turco in Germania federale o un operaio meridionale a Torino nei primi anni Sessanta si sentisse accettato nella sua “diversità”? Che la sua esistenza quotidiana non fosse contraddistinta da discriminazione e razzismo? Quello che voglio dire è che dobbiamo evitare, a mio parere, di analizzare i problemi a cui fai riferimento attraverso concetti generali, come la paura del diverso, che ci condurrebbero a ragionare esclusivamente in termini di filosofia o di psicologia sociale. Non perché questo ordine di riflessione sia in sé irrilevante. Ma perché credo che esso stesso debba essere sempre incardinato in un’analisi circostanziata delle condizioni storiche in cui di volta in volta i problemi di cui parli si pongono. Più che sulle costanti, in altri termini, mi sembra necessario porre l’accento sulle differenze, sulle specificità dei contesti. Da questo punto di vista mi sembra che ci sia in effetti una qualità nuova nella diffidenza, nella paura, nella chiusura che caratterizzano oggi le relazioni sociali in Italia e in Europa, per limitare a questi ambiti il nostro ragionamento. E questa qualità nuova credo possa essere ricondotta a un aspetto specifico della “grande trasformazione” che stiamo vivendo da un paio di decenni: al fatto cioè che una figura molto precisa di integrazione sociale – quella costruita attorno a una cittadinanza che si era fatta essa stessa sociale, che aveva investito il lavoro e si era tradotta in un insieme di politiche di welfare – si è andata sgretolando senza che prendessero forma soluzioni alternative. È a questa altezza che possiamo recuperare un ragionamento di carattere generale, filosofico se vuoi: nella “paura del diverso”, quel che è in gioco oggi non è tanto il profilo dell’“altro” quanto quello del “medesimo”. È l’incertezza che contraddistingue il “noi” – un’incertezza affatto specifica, materialmente determinata – a riflettersi nella fobia per il “diverso”.

Perché ci inducono a ragionare per categorie? Oggi si sente spesso dire: un albanese o un nigeriano hanno fatto questo e quello e questo, come ben si sa, non fa altro che aumentare i nostri pregiudizi nei confronti degli stranieri, ma perché? I mass media operano così per ignoranza o c’è una regia sotto? Mi rifiuto di credere che siano tutti ignoranti e xenofobi quelli che scrivono sui giornali, e, allo stesso tempo, non credo alla tesi del complotto, eppure? Mi è capitato di parlare con una studentessa, solo ad un certo punto sono venuto a sapere che era di Tirana. Non avevo davanti una nazione intera e neppure un campione significativo degli albanesi in Italia, per me rappresentava se stessa e basta. E’ difficile, ti chiedo, considerarci esseri umani prima che albanesi, italiani, islamici, lombardi e quant’altro?

È difficile immaginare una “regia”, e anch’io guardo con molta diffidenza alle ipotesi di “complotto”. Certo è però che gli effetti prodotti dal discorso pubblico – dal discorso dei media, ma anche da quello che prevale nella società civile e nella società politica – sono quelli che tu descrivi. Direi di più: molto spesso anche il discorso di coloro che si oppongono a questi effetti, di coloro che animati dalle migliori intenzioni si impegnano quotidianamente a costruire percorsi di solidarietà, finisce per subire i condizionamenti di cui parli. Penso ad esempio a un certo modo irriflesso e acritico di utilizzare le retoriche del multiculturalismo: sembra scontato che un senegalese o un equadoriano sia un soggetto totalmente determinato dalla sua “cultura”, che la sua identità si definisca senza resti a partire dalla sua identificazione “etnica”. Mentre sono proprio categorie come cultura ed etnia che si tratta di decostruire, ponendo l’accento sul carattere processuale e conflittuale delle identità individuali e collettive. D’altro canto dobbiamo sempre prestare attenzione ai processi materiali di ridefinizione della cittadinanza, degli stessi spazi urbani e del mercato del lavoro che stanno dietro al “pensare per categorie”. Per dirla molto brevemente: se i migranti di una determinata nazionalità finiscono per occupare posizioni determinate e omogenee sotto il profilo abitativo, della condizione giuridica e del lavoro che svolgono, è facile che essi stessi tendano a identificarsi – e che tendano a essere identificati dall’esterno – come “tipici esponenti” (per usare una categoria che ha avuto un grande successo in antropologia) di un determinato gruppo… Ancora una volta, quindi, quel che è in questione, è la figura complessiva che le società in cui viviamo tendono ad assumere. Non credo che sia davvero possibile sottoporre a una critica efficace i processi di cui parli – ferma restando l’assoluta importanza di una serie di iniziative puntuali che si possono e si debbono costruire sul terreno della formazione e dell’informazione – se non si mettono in discussione le dinamiche di segmentazione, di stratificazione gerarchica della cittadinanza e dello stesso mercato del lavoro a cui facevo brevemente cenno.

Nel nostro piccolo abbiamo ascoltato – prendendo spunto dall’interessante volume di Devi Sacchetto (Il nordest e il suo Oriente) e dal tuo Diritto di fuga – alcune voci di stranieri presenti sul nostro territorio. Credo, però, che sia necessario ascoltare anche chi si scontra direttamente con queste persone (mi riferisco a lavoratori e lavoratrici che vivono una condizione economica e sociale poco differente da quella degli stranieri). Credo che il problema dell’integrazione debba essere pensato partendo dal basso e non dall’alto: che l’intellettuale dialoghi e cerchi lo straniero è quasi ovvio, ma ci dimentichiamo spesso di chi si scontra, sul territorio, con questa realtà… Certo, si rischia grosso perché spesso le persone sono esasperate e si sentono abbandonate… ma qui cresce e trova terreno fertile un certo razzismo destrorso nostrano…

Non posso che essere d’accordo, in termini generali. Quel che dicevo prima va del resto nella stessa direzione: solo la costruzione di spazi comuni, di esperienze di condivisione che possono essere anche conflittuali, può porre le condizioni per un efficace contrasto di razzismo e xenofobia. Le battaglie culturali sono importanti, ma di per sé sono anche insufficienti. Al tempo stesso, non si può pensare che la prossimità delle condizioni oggettive, in termini di deprivazione, di miseria, di negazione di diritti, sia di per sé sufficiente a determinare un reciproco riconoscimento della comunanza di interessi. È un’idea che circola ampiamente a sinistra, ma che non mi pare abbia trovato grandi conferme in questi anni… Mi pare del resto che sia un problema generale, non riducibile alla dicotomia migranti/autoctoni, che si tratta anzi di sottoporre a una critica rigorosa, perché è in fondo il presupposto del razzismo che siamo impegnati a combattere. Può sembrare un paradosso, ma sono convinto che la costruzione di un orizzonte comune che ci consenta di immaginare e praticare relazioni sociali diverse da quelle con cui ci confrontiamo ogni giorno passi attraverso la valorizzazione e il riconoscimento delle specificità, delle “differenze” se vuoi. L’uguaglianza che mi interessa, in altri termini, non è tanto quella di condizioni di deprivazione e di sofferenza, ma quella che si tratta di costruire nella quotidianità di percorsi che non possono che essere conflittuali. È per questa ragione che tendo a essere un po’ diffidente nei confronti del concetto di integrazione: mi pare che questo concetto, nell’uso che se ne è fatto storicamente e che se ne continua a fare, tenda a dare per scontato che un orizzonte comune di condivisione e di cooperazione esista già, e che si tratti semplicemente di includervi coloro che ne sono fuori. Al contrario penso che si tratti di porre l’accento sulla necessità di costruire, di inventare, quell’orizzonte comune trasformando le modalità di cooperazione e di relazione sociale. E ripeto che, per restare all’interno della dicotomia concettuale classica della sociologia, da questo punto di vista dobbiamo guardare più al conflitto che alla cooperazione.


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