INTERVISTA A GIULIANO ANTONELLO

di Luigi Chesini

Secondo l’opinione del direttore de Le Scienze, il fisico Enrico Bellone, Einstein è stato il più grande filosofo del ‘900, che ne pensa?
Non sono d’accordo, a meno che non si dia al termine filosofia un significato generico e, in fin dei conti, banale. Bellone vuole essere, ad un tempo, elogiativo e critico. Elogiativo nei confronti di Einstein, così grande da occupare, con la sua figura, non solo lo spazio proprio della scienza, ma anche quello improprio della filosofia; critico verso i filosofi in generale che, per lo più, “parlottano” di scienza, senza sapere, in realtà, di che cosa stanno parlando. Io credo che la grandezza di Einstein sia tutta di natura scientifica. Un grande scienziato non acquista nulla con l’aggiunta dell’etichetta di filosofo: la scienza basta a se stessa, non ha bisogno di supplementi d’anima. Einstein, del resto, che da parte sua era un raffinato cultore di studi umanistici, oltre che un provetto violinista, non sarebbe stato d’accordo, immagino, ad essere definito “filosofo”. La scienza, assieme all’arte ed alla filosofia, è una straordinaria avventura del pensiero, come mostrano Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?, indisponibile, però, come l’arte e la filosofia, ad estrapolazioni. Con questo non intendo tracciare steccati invalicabili tra queste discipline, ma solo oppormi ad una visione collaborazionista e complementare che, a mio avviso, mortifica sia la scienza, sia l’arte, sia la filosofia. In altri termini io respingo quella “massima”, pur da Einstein amata e citata anche da Bellone nel suo editoriale, che prescrive che la scienza senza la filosofia sia arida e che la filosofia senza la scienza sia vuota. La grande scienza è viva ed affascinante per virtù propria, così come la grande filosofia non necessita di alcun riempimento allogeno. Se è vero che un filosofo (o uno scienziato) non vivono in mondi reciprocamente impermeabili, è altrettanto vero, però, che vivono in mondi ben distinti e, proprio per questo, ugualmente necessari e non succedanei. Non c’è alcuna esigenza di una falsa e retorica unità di filosofia, arte e scienza.

Quanto è lontana la relatività di Einstein e, in generale la sua eredità culturale, dal sentir comune e dalla cosiddetta cultura popolare?
Se per sentire comune si intende l’opinione corrente, direi che non è né lontana né vicina, ma semplicemente assente, ignorata, allo stesso modo in cui sono ignorate tutte le grandi idee dell’uomo. Se per sentire comune si intende invece la sua assimilazione culturale, per usare un termine orribile, allora va detto che la relatività di Einstein, sia ristretta che generale, con l’eccezione della comunità scientifica e di pochi altri “volonterosi”, è, semmai, colpevolmente e vergognosamente fraintesa, secondo le modalità ormai classiche della sottocultura. Non ho dubbi che solo un’esigua minoranza di laureati in filosofia, tanto per fare un esempio concreto, sia in grado di parlare con cognizione di causa della relatività einsteiniana. Qui non è l’ignoranza il peggior difetto, ma l’opinione corriva che se ne è formata. Non è raro trovare dottori in filosofia, ma anche qualche docente, che assimilano relatività a relativismo o che salutano la meccanica quantistica come una salutare “botta di libertà” assestata al soffocante determinismo della fisica classica, e via sproloquiando, mostrando di possedere, su tali temi, un’informazione non dissimile dal barbiere del mio quartiere. Qui il problema è più generale ed ha a che fare con un modo sbagliato di accostarsi alle teorie scientifiche. Lasciamo stare l’arte, che per sua natura richiede un incontro diretto (una pittura deve essere guardata, una musica ascoltata). Ma cosa penserebbero i filosofi di chi si avvicina alla loro disciplina leggendo solo manuali di storia della filosofia o saggi di divulgazione filosofica, senza aver mai direttamente incontrato il testo, e quindi il mondo, di un filosofo? Naturalmente si scandalizzerebbero, senza rendersi conto, però, che è quanto loro fanno con le teorie scientifiche. Non basta ripetere come un mantra, l’equazione E = mc2, ormai stampigliata persino sulle t-shirt, per pensare scientificamente la fisica einsteiniana. La teoria della relatività non è propriamente comprensibile
al di fuori e a prescindere dalle equazioni relativistiche.
L’apparato matematico della teoria della relatività è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la sua piena comprensione. Chi non padroneggia lo strumento matematico e la connessa concettualità fisica dovrebbe semplicemente riconoscere di avere solo una vaga idea di una delle più importanti e rivoluzionarie teorie scientifiche. Tutto qui. Basta saperlo, però, e regolarsi di conseguenza, per non scadere in quel parlottio sulla scienza di cui giustamente si duole Bellone nell’articolo che ho citato sopra.

Einstein tentò sempre di confutare o superare la meccanica quantistica perché non riusciva ad accettare alcuni suoi principi fondamentali?
“Non crederò mai che Dio giochi a dadi con l’universo”: una frase che il grande scienziato ha pronunciato ed alla quale, in un certo senso, si vorrebbe impiccarlo. Ma è davvero così? Chiunque conosca il lavoro di Einstein, sa quanto gli deve la meccanica quantistica. Einstein è uno dei creatori della meccanica quantistica (basti ricordare che è proprio lui, nel suo studio sull’effetto fotoelettrico, a “confermare” sperimentalmente la natura corpuscolare, fatta di quanti di energia, i fotoni, della luce). Certo, l’aspetto probabilistico, indeterministico, di questo settore della fisica ha sempre rappresentato un reale problema per Einstein. Ma non solo per lui, credo. Anche chi si è “rassegnato” all’indeterminismo strutturale del mondo subatomico, non convive facilmente con tale convinzione. Nel 1965 Richard Feynman, un guru della meccanica quantistica, scrive: “Penso di poter affermare con sicurezza che nessuno capisce la meccanica quantistica”. È sciocco pensare ad Einstein come ad un fondamentalista del determinismo laplaciano, deciso a sostenerlo persino contro l’evidenza stessa della sua pratica scientifica. Lo scienziato tedesco chiede solo delle buone ragioni per abbandonare il paradigma deterministico, chiede la certezza che l’indeterminismo fisico sia tale per ragioni intrinseche e non per problemi computazionali (l’infinita complessità del sistema da calcolare) o interattivi (l’effetto perturbante provocato dall’inevitabile interazione fra osservatore ed osservato). Bene, io non credo che queste buone ragioni siano state fino ad oggi davvero fornite. In ogni caso non parlerei, su questo, di torto o di ragione da parte di Einstein, perché un paradigma (e determinismo o indeterminismo sono paradigmi) non è una verità di fatto, ma un criterio di lettura, un orizzonte di senso e, in quanto tale, va accolto o abbandonato in base ad un principio di efficienza, non di oggettività.

Il paradigma einsteniano dello spazio tempo è ancora attuale dal punto di vista scientifico e, più in generale, culturale, oppure c’è già stato un superamento?
Questa domanda pone l’importante problema del progresso nella scienza. Uno dei più accettati luoghi comuni è quello che afferma che arte e filosofia non progrediscono (chi oserebbe dire che Raffaello “migliora” Giotto o che Kant renderebbe superflua la lettura di Platone o Aristotele?). Non così nella scienza, dove il progresso appare invece reale, incontestabile, oggettivo: è indiscutibile che Copernico confuta Tolomeo. Anche Einstein, a quanto pare, confuta Newton, dato che le formule newtoniane, in un certo ambito applicativo, vanno corrette con un fattore relativistico. Se è così, allora, anche Einstein ed il suo paradigma del cronotopo sembra destinato a “passare” inesorabilmente, anzi, forse è già passato. Tutto questo è vero, ma a mio avviso è opportuno introdurre una distinzione, una cesura, fra scienza classica e nuovo spirito scientifico, che ci porta a pensare in termini più articolati che cosa significa progresso nella scienza. Finché la conoscenza scientifica mantiene un rapporto diretto ed organico con l’intuizione e con l’osservazione, e tale era la scienza classica, allora la falsificabilità di una teoria appare in fin dei conti agevole e dipendente dal progresso dei metodi e degli strumenti tecnici di osservazione: la non verità del sistema tolemaico rispetto a quello copernicano è letteralmente “visibile” con i propri occhi, seppur adeguatamente rinforzati da opportune “protesi”, anche se va ricordato che, entro certi limiti e con l’aiuto di ingegnosi quanto macchinosi artifici, i tolemaici riuscivano comunque a produrre delle previsioni corrette. Ma che dire quando si procede al di là dell’osservabile, quando la scienza, come afferma Bachelard, rompe irreversibilmente con l’intuizione? Non viene meno, naturalmente, la falsificabilità che ogni teoria scientifica, per essere tale, deve sempre permettere, ma se ne cambiano in modo radicale i criteri operativi: la realtà fisica, sottratta alle coordinate della nostra intuizione, pur non cessando, naturalmente di essere realtà fisica, assume connotati più astratti, antiintuitivi, tali da renderla disponibile solo alla modellizzazione matematica. Dato che l’osservazione non ci è più di alcun aiuto, per “intuirla” si deve ricorrere alle risorse ad un tempo suggestive e pericolose della metafora e dell’analogia.
Quando si parla di spazio-tempo, quando si ragiona, quindi in quattro dimensioni, per noi esseri irrimediabilmente tridimensionali, non c’è nessuna osservazione, tradizionalmente intesa, che possa falsificare questa teoria. A maggior ragione quando, come nella teoria delle superstringhe o nella M-teoria, si fa intervenire un numero molto più grande di dimensioni, alcune di queste misteriosamente arrotolate. E che dire, poi, del modello olografico di universo? La “verità oggettiva” di questi modelli e quindi la loro possibile falsificazione e conseguente superamento, deve richiedere parametri e criteri diversi e ben più complessi di quelli necessari a confutare il sistema tolemaico. Se questo è vero, allora mi sembra legittimo sostenere che il paradigma einsteiniano mantiene tutta la sua validità e attualità scientifica, se e solo se accompagnato dalla consapevolezza che si tratta appunto di un paradigma, concepito per risolvere problemi specifici, senza la pretesa di valere sempre e dovunque. A proposito di modelli, vorrei concludere consigliando, soprattutto ai filosofi, la lettura di un bellissimo libro di Giorgio Israel, La visione matematica della realtà. Introduzione ai temi ed alla storia della modellistica matematica, Laterza. È un testo che aiuta a parlare con rigore di concetti spesso posseduti in modo solo generico, se non addirittura distorto, come quelli di determinismo, riduzionismo, complessità, caos, catastrofi, locale e globale e molto altro ancora.

Nell’area download è disponibile la versione intergale del testo.

Il prof. Giuliano Antonello collabora alla cattedra di Estetica
dell’università di Verona; attento conoscitore del pensiero contemporaneo e dell’opera di Albert Einstein
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