MATERIALI RESISTENTI
Citando il titolo di un famoso album degli anni ’90 inauguriamo questo mese una nuova rubrica con scadenza irregolare (bimestrale o trimestrale). Saranno presi in esame e commentati alcuni testi - articoli, libri, pagine web, immagini, film, album, spettacoli, quadri - che riteniamo fondamentali per comprendere e discutere il nostro vivere quotidiano. Uno sguardo diverso, spesso poco analizzato, sul vivere giornaliero… Iniziamo con un testo affascinante, uscito da qualche mese per i tipi di Einaudi. Non sottomessa di Ayaan Hirsi Ali non è solo il libro da cui è stato tratto il film Submission di Theo Van Gogh, ma è anche la testimonianza – scomoda e pungente – di una donna che, prima di tutto, è immagine della forza rivoluzionaria che caratterizza molte donne. Un libro scomodo, non solo per il tema esplicitamente trattato che tutti ben conosciamo (l’uccisione del regista). Un testo non gradito anche, e soprattutto, a noi occidentali – come Adriano Sofri rileva tra le righe della sua intelligente prefazione – perchè, nelle moderne democrazie dell’Occidente, la donna è ancora un problema irrisolto. Sono molti, ancora troppi, i falsi sinistrorsi che predicano uguaglianza, giocando alla rivoluzione per poi tornare a casa ad esercitare autorità sottomettendo la propria compagna… Nessun vero rivoluzionario – democratico o liberale che sia – è tale se, una volta rientrato in casa, si fa servire da capo a piedi senza muovere un dito. Non sottomessa è un libro vivo, pericoloso: mostra la forza e la determinazione delle donne – l’altro per eccellenza – che nessuno di noi vuole accettare come suo pari.
NON SOTTOMESSA
“Io sono stata musulmana, so di cosa parlo” (p. 68). Lapidaria e incisiva, Ayaan Hirsi Ali, non lascia margini di ambiguità alla sua denuncia contro la segregazione della donna nel mondo islamico e contro il tartufesco atteggiamento dell’Occidente liberale e “illuminato”, accusato, senza eufemismi di vigliaccheria, menefreghismo e razzismo. Non è solo il fallimento del multiculturalismo, come scrive Sofri nella splendida e lunga introduzione al testo, ma qualcosa di più specifico e seccante: “Tenetevi alla larga dai nostri usi famigliari. Dalle nostre pie devozioni e dalle nostre frustate. Non fateci un film. Non scriveteci libri, né articoli di giornale. Tenetevi alla larga dalle nostre donne. Se scappano, con la faccia rotta, e chiedono aiuto, voltatevi dall’altra parte. Del resto, è quello che in generale fate: ebbene, continuate. Se no, un nostro giovane diplomato e devoto magari vi sgozza in pieno centro, e vi infilza un sermone nel panciotto.” (p. XIII). È un’accusa avvilente, ma inconfutabile, rivolta da chi questa violenza l’ha vissuta e tuttora la vive sulla propria pelle, da persona minacciata di morte per aver osato criticare l’islam. “Invito i sostenitori della società multiculturale – scrive Hirsi – a informarsi sulla triste situazione delle donne che in nome della religione vengono assoggettate dietro le mura domestiche. Dovete essere maltrattati, violentati, imprigionati e oppressi in prima persona, per potervi mettere nei panni di un altro? Non è ipocrita giustificare o tollerare quelle pratiche quando in prima persona si è liberi di godere dei progressi dell’umanità?” (p. 89). Le donne, in effetti, sono le protagoniste sia del libro che dell’Introduzione di Sofri, perché è sulla loro pelle, sul loro corpo, sulla loro sessualità, sulla loro libertà e dignità, che un potere maschile ottuso e frustrato si abbatte impunemente. La violenza sulle donne, naturalmente, non riguarda solo l’islam e, sia pure in forme meno spettacolari, la riscontriamo quasi ogni giorno anche nelle nostre “civili” contrade. Basta, per questo, la lettura dei quotidiani. I testi di Elena Gianini Belotti (Dalla parte delle bambine e Prima le donne i i bambini, entrambi pubblicati da Feltrinelli) ci ricordano con drammatica evidenza quanto la repressione delle donne sia ancora una vergogna dell’Occidente. Senza alcuna cautela politically correct, Hirsi attacca violentemente l’islam, religione che lei vede basata sulla paura, l’ipocrisia e le perversioni di un tribalismo mai davvero superato. Ma il discorso deve necessariamente allargarsi ad ogni cultura “tradizionale”, basata sull’appartenenza etnica, religiosa, di clan, anziché sui diritti individuali, culture identitarie soffocanti e invasive, in cui sono attivi e apparentemente inattaccabili meccanismi di conservazione dei legami organici tradizionali, di cui la sottomissione della donna è uno degli indicatori costanti. Le religioni monoteistiche, soprattutto quelle universalistiche (Cristianesimo e Islam) rappresentano il sostrato ideologico primario della conservazione dell’identità. Per questo, chi si richiama alle radici cristiane della civiltà occidentale, credendo con ciò di rispondere efficacemente al fanatismo del fondamentalismo islamico, oltre che suggerire una strategia futile, mostra anche un’ipocrita amnesia storica, perché è da quelle radici che è spuntato Torquemada e l’Inquisizione con i suoi roghi, è quell’humus che ha prodotto un libro aberrante, pervertito e lugubre come il Malleus maleficarum, manifesto indegno e miserabile della più stupida misoginia. Il libro di Hirsi è una ribellione a tutto questo, ma lo è in modo preciso e peculiare. Leggerlo usando la chiave del conflitto di civiltà (occidente contro islam) o quella della guerra dei sessi (uomini contro donne) sarebbe un grave errore di prospettiva ed una colpevole mutilazione delle intenzioni prime dell’autrice, la quale pone tutto l’accento sulla portata antireligiosa del suo testo. Ed è per questa professione ribadita di antireligiosità, prima che per la documentata denuncia sociologica di oppressione femminile, che Hirsi rischia la vita. Hirsi mette in primo piano con coraggio il suo “conquistato” ateismo, con una chiarezza ignota a molti occidentali, che pur di fatto atei lo sono, ma che è dirompente per un musulmano e per di più donna, perché in tale cultura una dichiarazione di apostasia si paga con la vita. È questo il registro in cui Hirsi ci invita a leggere il suo libro-denuncia e lo testimonia il titolo stesso del saggio, perché “non sottomessa” significa letteralmente “non islamica”. “Io sono stata musulmana, e so di cosa parlo”. “Non abbandonateci al nostro destino, concedeteci un Voltaire” (p. 57). Hirsi ci chiede di ascoltarla, non solo come donna offesa, ma prima ancora come apostata e come atea. È una richiesta coraggiosa ed appassionata a cui sarebbe vile non rispondere con altrettanto coraggio e passione. Leggere questo libro è un buon inizio.
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