ELOGIO SMODATO DEL
QUINTO BEATLE
“Adesso sto male e mio padre che ha 87 anni se la passa meglio di me che ancora non ne ho 60, però dicevano che, vivendo come ho vissuto, non sarei arrivato a trent’anni… così ho vinto io e me la sono proprio goduta”. Così parlo George Best quindici giorni prima di morire per un’infezione renale dovuta al suo inguaribile alcolismo. Best: l’ala destra europea per eccellenza e, forse proprio per questo, fantasista sregolato anche nella vita. La storia del Quinto Beatle è di quelle da standard romanzesco inglese. George nasce a Belfast, da famiglia operaia e poverissima, però col pallone ci sa fare. È un solista del dribbling e a 17 anni lo compra il Manchester United del mito Matt Busby. Quella squadra è piena di campioni, da Bobby Charlton a Denis Law, e “Geordie”, fisico esile, non si sente all’altezza e scappa a casa, in Irlanda. Busby lo va a riprendere e lo rincuora, scommettendo sul suo talento. Avrà ragione lui: il Man U. vince il campionato nel ’65 e nel ’67. Nel ’66, nei quarti di Coppa dei Campioni, Besty segna una doppietta strabiliante contro il Benfica di Eusebio. Ma il capolavoro deve ancora venire e il destino vuole che sia, ancora una volta, contro la squadra lusitana della Pantera Nera: è l’anno d’oro, il 1968, e stavolta il Benfica è l’avversario temutissimo della finale. Una partita tirata che finisce sull’uno a uno durante i tempi regolamentari. Nei supplementari Best si scatena: dopo pochi minuti prende una palla innocua nella sua metà campo e comincia a scartare gli avversari come birilli, giunto davanti al portiere lo guarda negli occhi, finta- controfinta e, dopo averlo messo a sedere, deposita una palletta lenta e beffarda nella porta sguarnita. Finisce 4 a 1 per lo United e quell’anno Best vince il Pallone d’Oro. Ha 22 anni e secondo Pelè è “il più bravo del mondo”. Tuttavia la favola del calciatore baciato dal talento e maledetto dalla vita sta per compiersi. La sua popolarità è al massimo, osannato dalle donne e trascinato dalla classe cristallina, diventa il primo vero prototipo di icona pop legata al mondo del calcio. Ha una boutique di alta moda, ama le macchine veloci e le belle donne (alla fine saranno quattro le Miss Mondo accreditate come sue compagne, più un’infinità assortita di starlettes), ma più di tutto ama l’alcol. Manca gli allenamenti o spesso ci arriva completamente sbronzo. Il fisico regge ma alla lunga lo scatto ne risente e l’ambiente tutto non ne può più della sua poca professionalità. Il nuovo allenatore, Tommy Docherty, dopo l’ennesimo litigio, lo caccia. Lui pensa al ritiro, poi però lo chiamano a Los Angeles dove lo ricoprono di dollari e non ha alcun obbligo di allenarsi. Nel 1981 è per l’ultima volta capitano della nazionale Nordirlandese, si ritira sul serio a 37 anni dopo aver giocato anche in Australia. Finita la carriera da agonista procede con metodo nell’autodistruzione, viene arrestato spesso per ubriachezza molesta, continua la vita di sempre tra night e bottiglie. Nel 2000 esce un film, bellissimo, sulla sua vita di cui scrive la sceneggiatura. La parabola ormai è sempre più discendente. Nel 2002 vende per 235.000 sterline, a fronte di un mare di debiti, il suo Pallone d’Oro. Nello stesso anno riceve un nuovo fegato ma pochi mesi dopo ricomincia a bere, completamente in balìa dei suoi demoni. Poco dopo lo lascia anche l’ultima moglie, perché lo trova a letto con un’altra: è strafatto anche il giorno della separazione, in tribunale. Negli ultimi tempi beve “whiskey allungato con la soda per non restare stecchito sul bancone di qualche pub”. La morte è prematura quanto inevitabile. Per i suoi funerali, a Belfast, è atteso mezzo milione di persone e la camera ardente è stata allestita nelle stanze del Parlamento (per la prima volta in assoluto). Best è stato il simbolo in grado di unire tutti gli irlandesi, cattolici e protestanti, negli anni più caldi delle lotte religiose intestine. The Best, geniale, impulsivo, con quella classe così pura che gli permetteva di saltare i marcatori avversari tenendosi stretta la manica destra della blusa da gioco, sempre troppo abbondante. Ora per il giocatore più amato nella storia dei Red Devils restano gli applausi, i ricordi e le celebrazioni. C’è chi, come un altro grande ex “numero 7” dello United, David Beckham propone il ritiro della “sua” maglia e chi, come l’estroso francese Eric Cantona preferisce ricordarlo con queste parole (che, ne siamo certi, a Geordie sarebbero piaciute più delle commemorazioni ingessate): “George Best nella sua prima seduta d’allenamento in Paradiso, giocando da ala destra ha fatto girare la testa a Dio, per sua sfortuna schierato terzino sinistro. Vorrei tanto mi tenesse un posto nella sua squadra. Best, non Dio…”
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