I DISCHI DELLA CIVETTA

di Fabio Alessandria

LPETZ. Chi sono costoro? Una strana mistura. Dentro ci troverete di tutto, la spinta propulsiva, il batterismo al limite del metal, preciso e dinamico, di Beppe “drum machine” Mondini, le linee tormentate e gentili della chitarra di Andrea “Rasta” Cogno, il basso presentissimo e potente di Marco Boletti (le fondamenta della casa) e l’istrionico frontman di scuola stardustiana, impegnato a sperimentare con aggeggi elettronici, chitarre ritmiche e voci intubate: al secolo Andrea “Andj” Adami. Tutto questo sono, in sintesi, les:petits:enfants/ terriblez; un grande punto di incontro tra sonorità post rock, electro-pop, una dose di elettronica, una strizzata d’occhio ai Depeche Mode degli anni Ottanta, al noise e al gusto del ritornello orecchiabile. Aggiungendo solo una spruzzatina di dance per la sezione ritmica e il charleston in levare (è ora di smetterla, però, di paragonare tutti i gruppi che usano quell’accorgimento ritmico ai Subsonica, come non fosse mai esistita la Motown…) ci avvicineremo alla definizione del loro sound. In questi mesi i nostri hanno messo sul loro sito, www.lpetz.net, un demo autoprodotto e scaricabile gratuitamente dal web. Un demo che consta di cinque pezzi e di cui esiste anche una versione in cd, in cento copie numerate. Chi vi scrive ha ottenuto un’onesta copia 97, per la cronaca. Partiamo dalle considerazioni di base. Il disco è bello, ben suonato, ben strutturato. È pensato, ha un pack intelligente e stiloso. Tuttavia, alcuni dei pezzi migliori sono stati lasciati da parte (in attesa di registrare un lp?!) e la resa complessiva è vagamente magmatica, in altre parole il suono sembra un po’ impastato. La percezione che se ne ha è quella di una ripresa molto accurata ma che lascia percepire un quid di registrazione live. Il tutto è davvero godibile, tuttavia la sezione ritmica ne risulta un po’ penalizzata a discapito della voce che, contrariamente a quanto avviene nei concerti, si ritaglia uno spazio anche troppo vistoso. Le scelte tendono ad una norma, ad un suono standard. Così la voce si fa canto invece che strumento, il rullante perde un po’ della sua furia e le chitarre d’abbellimento si schiacciano sullo sfondo. Poco male. Le splendide No, martina, il cui riff chitarristico ci ha stregato, e concept fanno passare in secondo piano questi inevitabili difetti. La scelta netta è, invece, quella di cantare in inglese (con lievi intromissioni francofone). I testi, scritti da Andj Adami, procedono per accumulo di immagini, sensazioni vaghe, rimandi poetici, con qualche chorus veramente azzeccato (oh my God, my obsession…). Niente male, insomma. Anche se i quattro terribili danno il meglio di sé nella dimensione live. Del resto il progetto era iniziato così, nel 2000. L’idea portante era quella di un canovaccio noise-danzereccio per libere improvvisazioni e, nonostante gli aggiustamenti di formazione (allora c’erano Mattia “Champ” Campioni alla batteria e Attilio Marini alla chitarra) il concetto non è molto cambiato. Costringere tanta energia in quattro minuti di canzone non è facile, i LPETZ sono nati per farci ballare e non amano le forme chiuse.


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