THE NEW WORLD

di Ilaria Feole

C’è una nave che ha attraversato l’Oceano Atlantico e avvista le sponde della Virginia. È il 1607 e la nave è carica di soldati inglesi che fonderanno su quella terra Jamestown, in onore di re Giacomo. La tribù dei Powhatan scruta gli stranieri attraverso la vegetazione. Tutto questo, in qualche modo, fa parte del nostro immaginario collettivo; i coloni inglesi, i nativi americani, l’approdo delle navi alle terre vergini del Nuovo Mondo. Forse nel figurarci una scena simile sentiamo perfino la colonna sonora: toni squillanti, tamburi incalzanti, gli inglesi che gridano “terra!”, in un crescendo parossistico. The new world si apre con questa scena, ma non potrebbe essere più diversa dallo stereotipo hollywoodiano cui siamo abituati. Il nuovo film di Terrence Malick, il quarto in più di trent’anni, si rivela da subito come un’esperienza multisensoriale inedita per lo spettatore assuefatto al cinema d’intrattenimento americano; tutta la sequenza è girata in un clima di sospensione rarefatto, quasi magico, come se il nuovo mondo fosse un pianeta sconosciuto. Non ci sono grida, né tamburi, ma solo il verde alieno dell’acqua e dell’erba, e una musica di archi potenti e suggestivi. È così che il regista ci introduce nella sua personale “scoperta dell’America”, girata nei veri territori della Virginia e utilizzando solo la luce naturale. Lo spunto è la storia d’amore (probabilmente un falso storico) tra il capitano inglese John Smith (un Colin Farrell non all’altezza del ruolo) e la principessa algonchina Pocahontas (la quindicenne Q’Orianka Kilcher, cuore pulsante del film, capace da sola di illuminare lo schermo); Malick racconta la loro passione con trasporto, sfiorando i loro corpi con la macchina da presa, dando accesso ai loro pensieri attraverso la voce “off” (ossia proveniente da fuoricampo: è una cifra stilistica dell’autore fin dal suo primo film, La rabbia giovane). Non c’è in effetti una vera e propria trama che si svolga linearmente, ma piuttosto il susseguirsi delle riflessioni dei personaggi sovrapposte alle immagini (la natura è a tutti gli effetti coprotagonista) e coadiuvate da una splendida colonna sonora. L’amore tra Smith e la principessa diventa il pretesto per raccontare la prima colonizzazione dell’America e lo scontro tra un mondo completamente nuovo, irriducibilmente “altro”, e gli europei che cercano di plasmarlo sui loro modelli culturali, economici, religiosi. Malick ci mostra l’embrione da cui nascerà l’America: un accampamento lacero, popolato di uomini affamati e disperati, preda della malattia e della follia, incapaci di trovare sostentamento nel suolo che hanno occupato. È solo grazie all’aiuto di Pocahontas e della sua tribù se i coloni sopravvivono; per un tragico paradosso sono gli stessi indigeni che l’uomo bianco spazzerà via brutalmente a permettere ai primi insediamenti di resistere.
The new world è anche questo: un poema lirico, a tratti struggente, sulla nascita di una nazione vista attraverso le vite di una manciata di personaggi, i cui sentimenti vengono travolti dalla Storia. “Siamo come erba”, dice la principessa indiana, facendo eco al capitano del precedente film di Malick, La sottile linea rossa, che pronunciava la stessa frase, per riferirsi ai destini individuali sacrificati a un disegno più grande (di cui spesso sfugge il senso). Un film raro, visivamente di una bellezza lancinante e col grande pregio di essere totalmente privo di retorica.


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