LE VENTESIME
OLIMPIADI INVERNALI
Lo sprint di Giorgio di Centa, trecento splendidi metri in progressione dopo i 50 km nella classica fondistica di chiusura dell’Olimpiade italiana, è l’immagine più bella che ci potesse capitare per introdurre questo pezzo complicato; lo sciatore che, stravolto, si adagia sulla neve pochi metri dopo l’arrivo e dice: “adesso posso anche smettere di correre…” è la spiegazione perfetta di cosa significhi vincere un oro olimpico. Di Centa non era favorito (ci si aspettava Piller Cottler, bronzo nei 30 km, che invece è arrivato quinto per centesimi) è stato zitto e tranquillo ed è uscito, finalmente, dall’ombra della sorella Manuela (plurimedagliata, un mito…) ottenendo l’immortalità sportiva. La cosa non è riuscita, purtroppo, a Giorgio Rocca: il grande favorito dello slalom ha inforcato come un principiantello dopo trenta secondi, neanche il tempo di stappare una birra davanti alla tv. Il ragazzone non riesce proprio ad uscire dalla scia di Tomba e sprofonda nel buco nero del nostro sci alpino (zero medaglie, miglior piazzamento un quinto posto, qualcuno a livello federale dovrà pur prendersi delle responsabilità…). Tutte le icone su cui l’Olimpiade casalinga era stata plasmata hanno deluso assai. Margaglio-Fusar Poli, nel pattinaggio artistico di coppia, hanno cominciato alla grande e poi sono caduti, generando un disastro sportivo con risvolti da soap opera drammatica tra i due ballerini. La giovane Carolina Kostner, portabandiera azzurra, oberata di responsabilità dalla sua infinita grazia, è caduta dopo pochi volteggi, lasciando tuttavia in chi scrive una sensazione di bellezza rara ed indimenticabile. Non ha deluso il vecchio Armin Zoeggler, uomo proiettile sul suo slittino (oro da dominatore). Buona l’impressione generale dello sci di fondo (oro nella staffetta maschile), anche a livello femminile, bronzo nella staffetta quattro per dieci chilometri, pur coi vari problemi di ricambio generazionale dopo l’uscita di scena dei colossi Belmondo e Di Centa. Un bottino di medaglie nella norma se il destino non ci avesse regalato un jolly impensabile alla vigilia: Enrico Fabris, professione pattinatore su pista lunga. Mille agonisti in tutta la penisola (in Olanda ce ne sono trentamila, tanto per dare un’idea…) e, tra di loro, i quattro uomini d’oro nella gara a squadre e le benedette cosce da sessanta centimetri dell’uomo di Asiago. Oro nei 1500 mt e bronzo sui 5000. Il vero uomo dell’Olimpiade. Schivo, taciturno, senza paura del suo talento e della pressione che andava montando di pari passo alle attese. È stata una Olimpiade bellissima. Organizzata veramente bene in ogni aspetto, nonostante lo sfascio politico che l’ha circondata e l’originalità del Ministro Tremonti che ha tagliato 40 milioni di euro di finanziamenti già stanziati a un mese dalla cerimonia di apertura. Meraviglioso ed utile il restyling di Torino che si è tolta di dosso, finalmente, la ruggine ed è tornata ad essere una capitale, dopo qualche decennio di pigro grigiore. Presenze record negli impianti, sugli spalti e lungo le piste. In Italia le cose sono state fatte a regola d’arte, una volta tanto. La cerimonia d’apertura è stata un brivido pirotecnico e infinito, uguagliato solo dalle piroette del magnifico Evgeny Plushenko, il Nureyev del pattinaggio artistico che, oltre ad aver corretto l’unico neo del suo palmarès, ha dato dimostrazione di come la Bellezza possa essere, ogni tanto, un fatto tanto concreto ed oggettivo da lasciare senza parole anche i professionisti della logorrea come il sottoscritto.
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