L’ENFANT
Nell’edizione del Festival di Cannes 2005, zeppo di alcuni dei nomi più importanti del cinema mondiale, vincono i fratelli Dardenne. Il film è girato a Liegi, città belga a pochi passi dal Lussemburgo, dalla regione tedesca della Ruhr e dalla repubblica Francese e aggrappata all’ultimo lembo d’Europa Centrale. Le locations dove è girato il film sono quasi interamente grigi esterni appena periferiferici ma incollati al centro città grazie a lunghe lingue d’asfalto percorse in pulmann e a piedi, e a campi lunghissimi della cinepresa che fanno perdere copiosamente ai personaggi la loro identità. Bruno e Sonia sono due poveri ragazzi ai quali è appena “morta” l’adolescenza ed insieme nato un bambino. Lui ruba, grazie a due compagni di ben più tenera età ai quali spetta, molto dickensianamente, una fetta della refurtiva; lei fa la madre. Ci si accorge subito di essere di fronte ad un chiaro e fulgido esempio di cinema d’autore; innanzitutto per la totale assenza di musica e poi sicuramente per i tempi dilatati e per una totale noncuranza di soluzione narrativa. Non accade quasi mai ciò che il nostro occhio, ben educato, indottrinato anzi, nelle “scuole Hollywoodiane”, si aspetterebbe. Le sequenze non terminano, in realtà è come se l’intero film fosse un’unica grande ripresa che parli in modo semplice, quasi (neo)realista, di un tema così complesso come la crescita dell’individuo. Crescita che avviene in realtà, con un sol balzo, nel finale; in un piano-sequenza lunghissimo e struggente, dove i bravissimi protagonisti si lasciano andare ad un pianto liberatorio che sancisce la maturazione, il passaggio generazionale figliopadre e fa ben sperare in un futuro, magari non migliore, ma almeno “possibile”. Il nodo narrativo si articola intorno ad un fatto che può essere considerato una diga tra una prima parte ed una seconda: i due sono in coda all’ufficio comunale per avere una sovvenzione finanziaria, lei si propone di fare la fila mentre lui porta a spasso il bambino nella carrozzina. Il protagonista vende il neonato; senza nessuna tragicità, bypassando come detto la musica e mantenendosi a “distanza di sicurezza” da pensieri o rimorsi. Quando Bruno e la sua fidanzata si reincontrano, alla domanda della povera ignara che chiede spiegazioni sulla scomparsa del figlio, il ragazzo con totale noncuranza le fa vedere i soldi e le dice: “tanto ne facciamo un altro”. Sonia sviene ed è ricoverata in ospedale, lui cerca di riavere il figlio ma viene incastrato nella morsa della mafia locale che lo costringe sul lastrico psichico e fisico. Per ovviare ai debiti tenta poi, in compagnia di uno dei suoi compagni, di scippare una donna ma le cose vanno male. Il ragazzino con lui viene preso e il protagonista si costituisce. La sequenza finale è l’incontro tra i due amanti nel carcere dove il ragazzo è rinchiuso: qui soltanto avviene in lui il cambiamento. Cambiamento che, come detto e come spesso accade nal cinema d’autore, da vita non ad una nuova e patinata realtà certa, ma ad una “possibilità sicura”; semplicemente una netta ed immutabile presa di coscienza. Un film autoriale di verità, una “presa diretta” su una storia semplice, senza pretese e luoghi comuni, senza velleità o tecnicismi. E’ ancora la realtà della vita dunque ad interessare il cinema. Paradossale se si pensa che, forse più di tutte le altre, quest’arte contiene nella sua essenza stessa l’essere assoluta finzione.
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