SOLFERINO,
OSPITALITÀ E IMMIGRAZIONE

di Andrea Bianchera

Nei giorni scorsi abbiamo assistito a lunghe code di persone assiepate da molte ore se non da giorni, davanti agli uffici postali per presentare una domanda di lavoro. Brevemente, il governo ha autorizzato l’ingresso in Italia di 170.000 extracomunitari ed altrettanti neocomunitari (residenti negli ultimi paesi ammessi alla comunità europea) per lavori che gli italiani ormai non fanno più. Poiché le domande venivano accolte secondo l’ordine di presentazione, si è creata la ressa fin dai giorni precedenti. Si potrebbe eccepire sulla scelta un po’ ipocrita di fingere che le domande dovessero essere presentate esclusivamente per persone che fisicamente si trovano ancora nel loro paese e che possono entrare solo ad autorizzazione concessa. Ma quello che più ci ha portato a meditare, a parte il fatto di lasciare delle persone in fila all’addiaccio per una notte, è stato l’aver letto dal resoconto di un giornalista che gli abitanti di Cavriana, (tradizionalmente paese di profonda solidarietà contadina e radici democratico – cristiane) si siano lamentati non tanto per il trattamento disumano, certo non imposto ma comunque subito da questi poveretti, quanto per il fatto che alla fine della giornata hanno lasciato un po’ di rifiuti sul percorso! Evidentemente l’aria xenofoba ed un po’ razzista, comunque egoista e intollerante di pochi ha fatto breccia quanto meno nel giornalista, che ha riportato come prevalente un giudizio che ci auguriamo sia ancora di una piccola minoranza. Per fortuna, come ha avuto modo di ribadire nei giorni successivi la Presidente della Croce Rossa provinciale, vi è stato un naturale movimento di aiuti da parte di volontari i quali, richiamandosi ai più alti principi dell’istituzione che proprio nelle nostre zone ha avuto le sue origini, si sono prodigati per alleviare, per quanto possibile, i disagi di queste persone, provenienti da paesi diversi dal nostro e con la sola colpa, per la stragrande maggioranza di loro, di cercare un lavoro che consenta di dar da mangiare a se stessi e ai propri figli.
Nelle sue riflessioni raccolte in un libro su “L’ospitalità”, Jacques Derrida affermava, forse con un po’ di ottimistica utopia, che un gesto di ospitalità non può che essere poetico. Nel realismo dei nostri giorni non c’è più spazio alla poesia. Come è noto, “hostis” in latino significa sia ospite che nemico. Ma per evitare che quanto Kierkegaard, sia pure in tutt’altro contesto, (già nel 1843, in “Timore e tremore”) paventava come un rischio, ovvero il paradosso dell’assassinio come atto di fede, continui a manifestarsi come una tragica realtà, e vedendo anche solo l’aspetto egoistico della vicenda immigrazione, sempre più dovremmo convincerci che non è con la chiusura, l’emarginazione e l’odio che ci potremo sentire più sicuri e tranquilli. Se veramente siamo convinti e vogliamo salvaguardare le nostre tradizioni culturali, l’unica via possibile, paradossalmente, è solo quella di accettare l’estraneo, l’altro da noi. L’alterità ci impedisce, volenti o nolenti, di chiuderci nella nostra quiete. Tocca a noi quindi convincere gli altri della bontà del nostro sistema culturale, e solo consentendo la completa integrazione tra culture, nel rispetto reciproco, ci potrà essere tolleranza reciproca, solidarietà e salvezza per tutti.


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