NO GLOBAL,
VIOLENZA E NONVIOLENZA

di Claudio Morselli

Un nuovo spettro si aggira per l’Italia, lo spettro dei no global.
E’ vero che quello classico, l’intramontabile – lo spettro del comunismo – non è mai passato di moda e anzi, nelle ultime settimane preelettorali, tra bambini bolliti e quant’altro, ha avuto grande spazio nella polemica politica, ma anche qui non si scherza. I no global sono i violenti, quelli che spaccano le vetrine, quelli che non rispettano nemmeno la fiaccola olimpica, i teppisti, quelli che creano i disordini e si scontrano con la polizia. Per alcuni, addirittura, questo non basta. E allora i no global sono quelli che fanno esplodere le bombe, sono i terroristi; anzi, “sono peggio dei terroristi islamici”, come ha detto il nostro ministro degli interni Pisanu. Questo stereotipo si è talmente diffuso che non è raro trovarne traccia anche all’interno del centrosinistra, com’è successo con il sindaco di Vimodrone, che si è lamentato perché a Milano la sua auto “è stata incendiata dai no global”, o con lo stesso presidente della Margherita, Francesco Rutelli, il quale, dopo gli scontri di Milano del 12 marzo, si è sentito subito in dovere di chiedere, ai no global del centrosinistra, una netta condanna della violenza, anche se ha aggiunto – bontà sua – che i no global del centrosinistra “non vanno comunque confusi con ciò che è accaduto a Milano”. L’obiettivo è evidente: screditare il movimento, appiccicandogli un’etichetta spregevole, un marchio d’infamia, trasformando il termine “no global” in insulto, in sinonimo di esempio negativo, di ciò che è male.

Ma chi sono i no global? Probabilmente nessuno sa, con precisione, cosa sia questo “movimento no global”, che tanto grande, tanto articolato, tanto diversificato si presenta, a livello mondiale, senza alcuna struttura gerarchica, senza leader, con una rete immensa di centinaia di migliaia di associazioni e gruppi locali che contestano la globalizzazione selvaggia e guerrafondaia del grande capitale e operano sul territorio, con azioni concrete di solidarietà e di giustizia sociale, con pratiche di intercultura e con l’adozione di stili di vita finalizzati a costruire un futuro sostenibile, nonviolento e solidale. La nonviolenza rappresenta dunque uno dei principali elementi fondanti di questo movimento, che potrebbe a ben ragione definirsi “movimento della nonviolenza”, diversamente da quanto invece succede ai suoi margini, e fuori da esso, con la presenza di gruppi di contestatori e di provocatori che teorizzano e praticano la violenza e lo scontro fisico. Capita spesso, com’è avvenuto a Genova nelle tragiche giornate del luglio 2001, che questi gruppi riescano “stranamente” ad agire pressoché indisturbati, con ampia possibilità di movimento e grande facilità nel provocare danni. C’è poi un’area intermedia che, pur rifiutando la violenza, assume a volte atteggiamenti e comportamenti provocatori – impropriamente definiti di “resistenza passiva” – utilizzando un linguaggio violento e offensivo, e che ritiene sia legittimo, durante le manifestazioni, “difendersi” da eventuali cariche delle forze dell’ordine, in ciò contravvenendo ai principi della nonviolenza.

La violenza è fuori dal movimento no global: questo è un dato di fatto acquisito che non può essere messo in discussione dalle provocazioni e dagli atti di vandalismo di un gruppo di teppisti, com’è avvenuto a Milano. Dunque, nessuna giustificazione nei confronti dei comportamenti violenti, e fa bene Carlo Susara, nella sua lettera, a sottolineare questo aspetto importante. Ciò non contraddice il riconoscimento del valore della Resistenza, perché, come diceva Gandhi, di fronte a una dittatura, a un regime oppressivo e violento, è giusto che il popolo reagisca anche con le armi, se non ci sono le condizioni per una resistenza nonviolenta. Enrico Peyretti, però, sostiene giustamente che la Resistenza non fu solo armata e che contro il nazifascismo si realizzarono, in tutta Europa, “forme di resistenza condotta senza armi, da donne, da civili, da difensori degli ebrei, da operai con scioperi e boicottaggi, dai 600mila militari prigionieri che rifiutarono di collaborare coi nazifascisti. I partigiani – continua Peyretti – in gran parte usarono le armi. Ognuno lotta come sa e come può, fa il possibile, nelle condizioni date. Ai nazifascisti bisognava opporsi. Ma oggi – questa è la sua conclusione, che ci deve far riflettere – in una simile situazione, sarebbe possibile conoscere e attuare forme di lotta umanamente superiori. L’uso delle armi rischia molto di ridurre la sensibilità umana, che deve essere elevata nella liberazione. Ovviamente, pensare lotte nonviolente non significa affatto disconoscere la lotta armata partigiana, ma solo progettare lotte più libere dalla contaminazione della violenza”.


1 Commento »

  1. Mi trovo a tratti in accordo con l’articolo, frutto di una sincera riflessione che, ahimè, manca di una critica assolutamente, a mio avviso, rilevante.
    Il movimento “no global” presenta una lacuna che, nel mondo globalizzato, non può passare inosservato. Anzi, ritengo sia una lacuna che porta lo stesso movimento ad essere continuamente attaccato dagli esponenti del mondo politico. Questa lacuna consiste nella totale mancanza di figure di rilevo, e con ciò non mi riferisco ai finti intellettuali, sempre pronti ad esprimere i loro “alti” giudizi quando ormai è troppo tardi. Figure di rilievo che possano guidare lo stesso movimento in modo “illuminato” affinchè acquisisca la dignità che merita.
    I no global dovrebbero essere coloro che denunciano la sporcizia presente nelle grandi strutture internazionali, che denuciano gli sporchi giochi politici presenti nella più grande organizzazione internazionale (Le Nazioni Unite), ma mi possono venire in mente esempi che riconducono al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale. Nessuno ha spaccato vetrine quando è esploso lo scandaloso caso passato alla cronaca come “Oil For Food” che si concluderà probailmente con qualche semplice e banale condanna morale; nessuno è sceso in piazza per opporsi ai loschi “giochi petroliferi” che vedono protagonisti, proprio in questi giorni, Cina-Russia ed India; nessuno alza le “bandiere della pace” per opporsi fermamente alle prese di posizioni di un paese che, come l’Iran, predica bene ma razzola male.
    E allora ritengo che ci sia modo e modo di essere no global: un modo anti-democratico e di totale ignoranza ed un modo più intelligente e lungimirante. Ma si sa: si fa sempre più fatica ad essere intelligenti e lungimiranti.
    Mi preme complimentarmi con l’autore dell’articolo, Claudio Morselli, poichè ha saputo focalizzare dei punti importanti, ma soprattutto ha saputo analizzarli con un’onestà politica non indifferente.

    Francesco Tocchella

    Comment scritto da Francesco — 4/26/2006 @ 9:56 am

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