IL LATO OSCURO
DEL VELLUTO
SOTTERRANEO

di Giovanni Caiola / underdog1982@libero.it

Ah, i Velvet Underground! Tutte le volte che ci si ricorda di loro, non si riesce a non rivolgere un fugace pensiero anche a Lou Reed che ne fu il leader, perpetrando così un misfatto che va avanti da decenni. Ci si dimentica troppo spesso, infatti, che al fianco del prode Lulù ha agito, nei primi due album, quel John Cale che è stato fondamentale nella definizione dell’originalissimo suono che ha reso immensi i Velvet. Senza l’apporto del gallese la banda del Velluto Sotterraneo non dico che sarebbe stata un normale gruppo rock ma quasi: le sarebbero mancati quei fulminanti riferimenti all’avanguardia colta che ancora oggi intrigano assai. D’altronde Cale proprio dall’avanguardia veniva – fondamentali i suoi trascorsi agli ordini di La Monte Young – e a quella, finito il perverso sodalizio con Reed, sarebbe (sporadicamente) tornato. Dopo due dischi solisti piuttosto deludenti, nel 1972 ritrova la forma con un album che di rock non ha proprio nulla. The Academy In Peril vive difatti di atmosfere pianistiche transumanti fra il rarefatto ed il convulso: in The Philosopher e King Harry pare che gli spiriti di Van Dyke Parks e Captain Beefheart faccian comunella tra loro, Days Of Steam preconizza la Penguin Cafe Orchestra, Brahms è un’assoluta meraviglia ben descritta dal titolo che i Black Heart Procession devono aver ascoltato per benino. La bizzarra copertina firmata da Andy Warhol (presenza importantissima nella vita del Nostro) completa quello che a tutti gli effetti può essere definito un capolavoro e che, per un tondo decennio, rimarrà anche il lavoro più soddisfacente sfornato da Cale. Dopo essere ritornato al mondo del rock (sui generis ma rock: ascoltare i bellissimi acquerelli pop di Paris 1919 del ’73 per credere) l’ex-Velvet pubblica nel 1982 Music For A New Society e da allora la musica della società è veramente cambiata per sempre. L’avanguardia si sposa col pop dando così vita ad un disco per il quale mi è arduo trovare aggettivi adeguati. Un pianoforte che cola romanticismo, un sintetizzatore che s’insinua voluttuosamente, gelidi sfarfallii di chitarra, rade percussioni di sottofondo: un John Cale che respira dolore rendendolo musica. Un album che cresce ad ogni nuovo ascolto, anche se ad ogni nuovo ascolto sembra esser radicalmente mutato; ogni dolore che la vita c’infligge ce lo rende sì più vicino, ma facendolo nel contempo così grande da non poterlo mai afferrare compiutamente. Un disco che cresce col crescere della vita. Un disco più grande della vita. In un’intervista il suo autore ha dichiarato di non riuscire mai a riascoltarlo perché l’intensità creativa di quel periodo ancora lo disturba nel profondo. Lo capisco perfettamente, in quanto è difficile sostenerne il peso anche per chi solamente lo ascolta. In seguito Cale tornerà a lambire l’olimpo musicale in coppia con l’amico-rivale Lou Reed in quel Songs For Drella (1990) che è l’estremo omaggio porto dai due all’antico mentore Andy Warhol.


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