THE TRUMAN SHOW

di Dą(vide) Bardini

Iperrealismo o iperfinzione?

Truman Burbanks è una normale persona di una normale cittadina sposato con una ragazza normale; un lavoro normale, le normali conoscenze, la normale facciata pulita di una comune società. Fa parte di quel sistema chiamato “american-way-of-life” supportato da fotografie di famiglie felici, prati curati e placebo nascosti nel cassetto del comodino. Ogni mattina, come in ogni città o piccolo paese del globo, la consuetudine desta gli abitanti del mondo che, come Truman, meccanicamente, si lavano via il sonno sopra il lavandino confessando giorno dopo giorno al loro specchio la sofferenza che accompagna il risveglio. Immaginatevi però, se a guardare il vostro volto sconvolto ogni mattina, fossero milioni di persone in tutto il mondo e che voi siate allo scuro di tutto. Il film non mente allo spettatore: fin dalle prime sequenze la trama mass-mediale ci svela che Truman è il protagonista del più imponente meccanismo televisivo-sociale dei nostri tempi. Un essere umano che abita uno sterminato set circondato da migliaia di comparse e spiato da circa 5000 telecamere che permettono d’averlo nel quadro della cinepresa 24 ore su 24 (o quasi…I momenti d’intimità con la moglie sono oscurati come vuole la società del “civil pudore”). Peter Weir, che gira magistralmente un film con alto spessore metalinguistico, affida nel cast la direzione del Truman Show ad uno stupendo Ed Harris (Christof), che con un ruolo da artista-filosofo (sempre che le due “professioni” siano scindibili) va a nozze. Jim Carrey dice addio al ruolo demenziale cucitogli addosso a causa del suo volto parodistico e abbraccia una parte davvero difficile; non soltanto per la portata concettuale della pellicola, più per la necessità di essere Truman nella finzione, rappresentando il meglio possibile una realtà che, come detto sopra, è di per sé un’enorme ma fragile teatrino della messinscena. Finzione portata all’estremo, al collasso, tesa a tal punto da essere quasi realtà, iperrealtà appunto. Estes, e gli altri artisti iperrealisti, sembrava toccassero con i loro olii e sculture una perfezione stilistico-tecnica che lambisse la perfezione della istantanea fotografica. Quello che facevano non era imitare la realtà (arte come mimesi), essi, così come fa Weir, porta questa realtà ad un apice superiore…la realizzazione di qualcosa che sia più vero del vero (R. Pasini,VEDERE,GUARDARE, ‘VEDERE’). Quando il protagonista, spinto ormai da una implacabile angoscia esistenziale, si scontra con il dispotico regista-padre dello show, si assiste ad una sequenza di stupenda capacità narrativo-cinematografica. Truman, che per fuggire dalla sua iperrealtà sale su una barca e la governa verso l’infinito, è contrastato da Christof, che come un Dio dell’antica Grecia, dà vita ad una tempesta tanto artificiale quanto reale che rischia addirittura d’uccidere il protagonista. Notevole l’ultima frase pronunciata da Truman che, ormai consapevole del ‘complotto voyeur’ di cui è vittima, guarda verso il mondo, verso il suo ‘pubblico’, dicendo la frase che per anni è stato lo slogan dello Show: “E, se non ci vedessimo, buon pomeriggio, buona sera e buona notte”. Allarmante e visceralmente postmoderno.


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