PALESTINA LIBERA PARLA ALBERTO MUSATTI GVC PALESTINESE

di Eliseo Barbāra

Ritorna alla memoria quando i telegiornali mostravano l’abbattimento del Muro di Berlino, uno dei più tristi eredi della pazzia nazista e degli inaccertabili disaccordi di potere. Ricordo le immagini di euforia e di pianti liberatori di una popolazione divisa che ritrovava la speranza dopo anni bui. Il nuovo secolo ha portato un nuovo muro, più lungo, più alto e più terribile e disumano di quello di Berlino. Gli oppressi di sessant’anni fa hanno imparato la lezione e si sono trasformati in oppressori. Dal 2000 il Primo Ministro israeliano Barak ha deciso di costruire un muro per ostacolare l’ingresso di palestinesi in Israele, di fatto è una segregazione della popolazione palestinese. E Israele non vuole fermarsi. Gran parte dell’Occidente, intanto, è cieca o fa finta di non vedere. In giro per l’Italia è possibile imbattersi in un’interessante mostra fotografica che documenta, informa, fa riflettere e cerca risposte non solo sul muro ma sull’intero conflitto israelo-palestinese. La mostra (fino al 26 agosto a Ponte di Legno) è intitolata Un Muro non basta… per nascondere un orizzonte alla sua terra ed è stata ideata da Andrea Merli per il VIS. Ha fatto un certo effetto rivedere gli stessi soggetti delle fotografie con i miei occhi quando, il mese scorso, ho fatto un viaggio in Israele e in Palestina. Ero ospite dell’amico Alberto Musatti, responsabile amministrazione, logistica e risorse umane della Ong bolognese GVC Palestine, in una casa di Gerusalemme Est in cui il Muro passa letteralmente nel giardino.

Alberto, nel 2004 il Muro è stato dichiarato contrario ai princìpi di diritto internazionale dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, ma intanto si continua a costruire.
È chiaro e documentato che la costruzione di un muro in una terra nella quale ancora non sono stati dichiarati i confini è un’azione contraria ai princìpi di diritto internazionale. Quello che a volte non passa nei normali mezzi di comunicazione, oltre alle leggi violate, è l’impatto su chi con quel Muro deve cominciare a fare i conti tutti i giorni. Molti palestinesi pensano che ci siano due “se” con i quali potrebbero accettare l’idea del Muro. Il primo è costruire il muro sui confini indicati dalla comunità internazionale (la linea verde del 1967) e il secondo “se” è che ci sia la netta separazione: da una parte ebrei e dall’altra arabi. Quest’ultimo è il fatto più scioccante perché di fatto il Muro è costruito per dividere gli stessi palestinesi. Salvo nel caso degli insediamenti israeliani, in nessun altro caso il Muro divide due Stati abitati da due popoli, bensì passa interamente nelle zone arabe. Israele dice che la distanza tra la linea verde e il tracciato effettivo è “necessario” per avere a disposizione una zona cuscinetto, in realtà pare sia fatto apposta per distruggere e separare legami tradizionali così importanti nella cultura palestinese.

Non soltanto la cultura viene segregata e distrutta, ma anche i possedimenti dei palestinesi per mezzo di espropri, sfratti coercitivi, permessi di passaggio discriminatori e la monopolizzazione delle fonti idriche. Il tuo ultimo progetto si preoccupa della questione idrica in Palestina, ce ne parli?
L’acqua è per alcuni la principale causa del conflitto. In tutto il territorio di Israele e della Palestina il controllo delle fonti d’acqua è israeliano. Dopo l’occupazione del 1967 Israele ha bloccato l’accesso a nuove fonti d’acqua ai palestinesi, ciò significa che solo gli acquedotti e i pozzi esistenti potevano essere usati, nessun altro scavo è permesso. Noi lavoriamo sull’agricoltura, che vive di acqua, ma nei nostri progetti non possiamo scavare pozzi o ristrutturare quelli esistenti ad uso agricolo per ordini israeliani. Insomma se c’è bisogno di acqua, deve essere acquistata da Israele, al di là del muro. Inoltre il controllo israeliano non è solo sulle acque superficiali ma anche sulle falde sotterranee della Palestina: una falda sotto il territorio palestinese può essere scavata solo da Israele. La questione dell’acqua è complessa ma vitale.

Credi che l’autorità nazionale palestinese possa riuscire a gestire la situazione in modo indipendente e autonoma se potesse?
Al momento direi di no. Bisogna considerare però le condizioni in cui queste persone stanno vivendo e lavorando. Uno: continui blocchi stradali che non permettono a persone e cose di circolare liberamente nemmeno sul territorio del loro comune. Due:quotidiane incursioni armate o incognite, assassini e sequestri come quello del responsabile del parlamento palestinese e quello dei ministri del governo qualche giorno fa. Un episodio assurdo (e condannato dall’ONU) che un esercito rapisca i ministri di un governo autonomo e, dopo giorni, nulla, i ministri palestinesi sono ancora in carceri israeliani E infine, tre: l’assurdo blocco verso una fazione votata legittimamente, seppur di visioni estremiste come Hamas, che diventa un pretesto per azioni ancora più “giustificate”. Le condizioni non sono facili per lavorare e per vivere, figuriamoci per governare anche se le capacità tecniche ed amministrative ci sono.

Secondo te le ONG dovrebbero mantenere una neutralità o svolgere anche un ruolo di informazione-ponte tra, in questo caso, Palestina e Occidente?
Sulla neutralità comincio ad avere i miei dubbi. Sono arrivato con l’idea che il nostro lavoro dovesse essere completamente neutrale, me ne riparto dopo un radicale cambiamento di prospettiva. È difficile non lasciarsi coinvolgere in una situazione di questo tipo. Non siamo nemmeno ben visti dai funzionari e dall’esercito di Israele. Mi sento trattato spesso come sono trattati i palestinesi, cioè diverso, non ebreo e oggettivamente critico del loro atteggiamento pienamente responsabile della situazione critica dell’intera zona. C’è un popolo costretto all’immobilità e alla dipendenza, rinchiuso in un territorio sempre più piccolo, isolato dall’esterno e considerato “terrorista islamico”: questa è una menzogna usata come scusa per continuare quello che si è cominciato a fare qui. Esistono i fondamentalismi armati, ma non vanno confusi con le lotte di indipendenza, con la difesa della propria terra contro l’occupante. L’Occidente oggi ha paura, deve cercare amici e nemici, qualcuno con cui identificarsi e qualcuno con cui combattere. Israele è dichiarato amico dell’Occidente perché paese formato da occidentali e i suoi nemici sono diventati anche i nostri. Ma non è così, è troppo semplice. Le canaglie ci sono in mezzo agli altri come dentro di noi.


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