Jean-Marie Straub e Ken Loach
convergenze e divergenze di cinema politico europeo

di Dą(vide) Bardini

Parlare di un regista vuol dire analizzare l’intera sua opera, fissandone gli archetipi estetici e le ossessioni formali e poetiche ed è un lavoro complesso e lungo. Mettere a confronto due registi è, si capisce, ancor più oneroso. Mi si conceda dunque che quest’analisi risulti apparentemente superficiale e telegrafica ma si pensi che è volta soltanto ad analizzare alcune relazioni che intercorrono tra due modi di fare cinema che, benché si trovino sotto lo “stesso tetto”, definiti cioè entrambi “cinema politico”, hanno due diversi (opposti?) statuti estetico-narrativi. Gli autori sono l’inglese Ken Loach e il francese Jean-Marie Straub (parlerò solo di Straub per comodità di scrittura, ma a lui va riferita immediatamente Danièle Huillet, moglie e co-regista di tutti i film, tra l’altro scomparsa pochi giorni fa) e la mia piccola analisi si concentrerà sull’estetica dei registi e sulla sopraccitata definizione divergente di “cinema politico”. La prima sensazione che si può avere, guardando il cinema di Ken Loach, è la scarsa ricerca estetica. La forma che permea totalmente il suo cinema è semplice da “vedere” ma non altrettanto da ri-creare. Riduce il cinema a mero mezzo per raccontare qualcosa perdendo certo la forza potenziale che il mezzo stesso offre all’artista, ma, allo stesso tempo, recuperando quella sobrietà necessaria perché la storia venga raccontata a tutti e venga narrata nel modo più “realista” possibile. La tendenza ossessiva di Loach ad eliminare l’atto del guardare per permetter all’occhio di “vedere” immediatamente ciò che accade, non è operazione semplice, né a livello estetico, e certamente nemmeno a quello formale. È come spogliare il cinema dei fondanti pilastri di riproducibilità, di ripetizione, di a-temporalità e a-spazialità e portare lo spettatore nei cantieri di lavoro (Riff-Raff, 1990; Paul, Mike e gli altri), negli scenari della lotta (la guerra civile spagnola in: Terra e Libertà, 1995; la rivoluzione sandinista in Nicaragua in: La Canzone di Carla, 1996; la lotta sindacale in: Bread and Roses, 2000) o nelle strade (My Name Is Joe, 1998). Il cinema di Ken Loach è politico, perché riguarda la gente, perché esiste per essere visto e sensibilizzare la gente, perché è fatto con pochi soldi e perché è contro il sistema dello star-system, il sistema americano, il sistema capitalistico che inonda lo spettacolo. Il suo cinema è politico perché è la conseguenza, e questo è molto importante, di un approccio politico, marxista-materialista, alla vita. Come i suoi corpi attoriali che sono talmente “possibili” e verosimili da “essere” e basta, “come se l’attimo del suo farsi coincidesse con quello dell’offrirsi ai nostri occhi” (Luciano Giusti. Ken Loach, Edizione “Il castoro cinema”). I personaggi Loachani possono assaporare le vittorie solo quando sono uniti nella sofferenza e nella lotta ad altri come loro; nel momento in cui ricercano una propria soddisfazione individuale invece, finiscono per perdere, quasi il regista volesse sottolineare l’impossibilità dell’individualismo ed insieme auspicare alla potenza espressa dalla massa. Straub, in un certo senso, fa l’opposto. Il suo cinema è soprattutto una grande ricerca metalinguistica; adoperando come tramite testi di poesia (Vittorini), letteratura (Boll, Corbeille, Kafka etc…) e musica (Shoenberg, Bach), in realtà non fa altro che parlare del cinema. Parte sempre da un testo per giungere poi ad un altro testo, quello cinematografico. Parla di quest’arte che appena conosciuta, già era infetta dai germi dello spettacolo, dimenticò la forza intellettuale che potenzialmente avrebbe potuto esprimere. A livello estetico ridimensiona l’inquadratura e lo spazio. Nelle sue panoramiche a rotazione sull’asse della cinepresa, che talvolta avvolgono l’ambiente fino a tornare sul piano iniziale, ci è dato da vedere tutto ciò che sta intorno alla macchina da presa evitando accuratamente la selezione. Sembra quasi una dichiarazione di intenti volta a condividere il mondo con un occhio attento, totalizzante, che non s’accontenta della scelta offerta dal cinema classico. Se la camera gira di 360 gradi il gioco è fatto: il set non esiste più, le luci di scena neppure, il cinema riporta l’occhio all’occhio costringendo lo spettatore a scontrarsi con l’abitudine alla finzione; lo istiga affinché s’accorga delle tare che l’hanno zavorrato dalla nascita. Ripensa il montaggio, riducendolo (o innalzandolo) all’essere (in-) frazione spazio-temporale, tempo che intercorre tra uno stacco ed un altro. Pensiamo ai piano-sequenza, utilizzati spesso nei suoi film, che talvolta non mostrano nulla se non lo scorrere temporale imprigionato in un ambiente. Iperbolicamente, si potrebbe paragonare in pittura al suprematismo Mondriano che, scartata la rappresentazione, trova nella linea orizzontale e verticale e nei colori primari, l’unica forma d’arte possibile; una sorta di arcaismo primordiale, intenzione tra l’altro, espressa più volte lungo tutta la storia dell’arte da moltissimi artisti. Per tirare le somme, si può dire che mentre Loach adopera il cinema come mezzo per trattare la politica, Straub adopera la politica come mezzo per trattare il cinema.


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