INCONTRO COL MAESTRO AZIO CORGHI

di Paolo Capelletti

Le coincidenze fortunate sono tra i piaceri più sottili e godibili: scrivi una recensione all’ultima opera teatrale di José Saramago, Don Giovanni o il Dissoluto Assolto e, in pochi giorni, grazie alla Civetta, ti trovi seduto di fronte a chi quell’opera l’ha musicata (oltre alle precedenti collaborazioni col Premio Nobel, le opere Blimunda e Divara), a uno dei maggiori compositori riconosciuti da anni a livello internazionale nonché all’attuale docente di Perfezionamento di Composizione presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Roma), al Maestro Azio Corghi. Vieni accolto nella sua casa di Guidizzolo con estrema disponibilità e gentilezza e introdotto in un’amabile conversazione, tra suggestivi racconti e riflessioni di acume raro, quasi un percorso, pur breve, che cercherei di riassumere nelle seguenti righe:

L’incontro artistico con José Saramago: Blimunda
La premessa è che, nel mio percorso, agli inizi degli anni Ottanta, sentivo di aver bisogno di trovare la collaborazione di uno scrittore con cui creare per il teatro. Dopo il Gargantua del 1984, in molti insistevano perché allestissi un’altra opera, io non sapevo che opera fare, perché è sempre difficile ripetere un successo; lasciai passare, tra l’84 e l’85, un po’ di tempo ed un giorno, sulle pagine di "Repubblica", vidi un articolo di Tabucchi che presentava il Memoriale del Convento di Saramago e sentii di aver trovato il soggetto. Andai dal direttore artistico di Torino che, letto il libro, mi disse: “sei pazzo, questa è un’epopea”; io gli spiegai che mi interessava rappresentare la storia con la “s” minuscola e lo convinsi. Intanto lessi che Saramago aveva in quei giorni negato a Fellini il permesso per un film sul Memoriale e pensai che mai avrebbe permesso a me un adattamento teatrale; ma allora il mondo era anche diverso e pensai: “Io gli scrivo lo stesso”. Le risposte non arrivavano, ma si sa che i giornalisti, talvolta, con i loro mezzi e per vie traverse… così mi rivolsi ad Alberto Sinigaglia, della "Stampa", che mi mandò da Rigoni Stern ed egli mi diede l’indirizzo di casa di Saramago; questi mi aveva, in effetti, risposto ma le sue lettere si erano sempre fermate alla SIAE portoghese. Infine, il giorno del mio compleanno, trovai una lettera che affermava l’interesse di Saramago per il teatro d’opera e la sua disponibilità per un lavoro teatrale. Ci incontrammo a Roma, a casa dell’allora docente di letteratura portoghese alla Sapienza. “Come lo intitoleremo?” “Blimunda”, d’accordo di occuparci della storia (con la “s” minuscola”) sullo sfondo della Storia (con la maiuscola). Allora, per una concomitanza di eventi, l’editore Ricordi, con cui avevo pubblicato agli inizi, mi chiese di tornare e l’opera andò in scena alla Scala. Si diceva che difficilmente sarebbe stata apprezzata perché il pubblico fatica, spesso, a rapportarsi alle opere contemporanee, ma il regista, Savary, lavorò ad una sceneggiatura in stile cinematografico, con sequenze molto rapide su tre piani differenti: uno spazio reale, uno immaginario e uno puramente acustico. Saramago venne così a Milano per la rappresentazione e la Facoltà di Letteratura Portoghese organizzò un convegno. Era stato pubblicato da poco L’anno della morte di Ricardo Reis ed egli stava scrivendo Il Vangelo secondo Gesù Cristo.

Come ripetere un successo: Divara
I successi arrivano quando meno te li aspetti, anzi nelle avversità: dopo Milano e Torino, Blimunda passò al São Carlo di Lisbona, la sera della prima i professori dell’orchestra decisero di scioperare (e avevano ragione), data anche la presenza del Presidente della Repubblica. Insomma, anziché vedere l’opera in scena, quella sera andammo in pizzeria. Il caso volle che il direttore d’orchestra, a Lisbona, non fosse il medesimo del Teatro alla Scala, ma un giovanissimo maestro tedesco, Will Humburg, recentemente nominato General Direktor a Münster e che aveva, quindi, la responsabilità della programmazione: in quella occasione egli manifestò il desiderio di inscenare una novità prendendo spunto dai fatti di Münster della prima metà del ‘500, con la rivolta degli anabattisti, la cacciata del vescovo e l’autonomina di “Nuova Gerusalemme”. L’opera prese il nome da un personaggio femminile di secondo piano: la regina Divara ovvero la moglie di Jan van Leiden, il “profeta” capo del movimento. Era il ’91 e Saramago, creando la vicenda, diede prova di grande intuito storico, in anticipo sulle guerre di religione iniziate poco dopo in Jugoslavia.

Il Dissoluto Assolto
Delle tre opere composte su testo di Saramago, Il Dissoluto assolto (capovolgimento del mito di Don Giovanni) è senza dubbio la più rischiosa poiché vi entrano in gioco il riso e l’ironia.
Nelle vicende precedenti l’identificazione col personaggio, da parte dello spettatore, era più immediata, invece con il Dissoluto, s’irride la figura del “commendatore” e di conseguenza quella di coloro che amano definirsi “virtuosi e tolleranti” (ciò che, inevitabilmente, solo i potenti possono essere) ma sono, invece, “ipocriti”, come li accusa Don Giovanni. Poi c’è la vendetta della sedotta Donna Elvira, assecondata da Donna Anna e infine l’assoluzione finale dell’astuta contadinotta Zerlina. Ovviamente, opere come queste, dividono sia il pubblico che la critica ma… quando la situazione si avvera, si può supporre che almeno parte del messaggio sia giunto a destinazione.

L’insegnamento
Io non mi pongo di fronte all’allievo pensando di dovergli “infondere” conoscenze acquisite. Secondo me il rapporto maestro/allievo consiste soprattutto in uno scambio di esperienze ed è normale aspettarsi, se l’allievo è intelligente, che sia lui a farsi avanti per chiedere “come si fa?”. Ho avuto la fortuna di studiare con bravi maestri, Bruno Bettinelli in primis, dai quali ho appreso che occorre saper “piegare artigianalmente i materiali” al fine di poter organizzare la forma dell’opera tuttavia, per esperienza, so che la sfida, per un compositore, ha luogo con il “fattore tempo”.

Parlare nella lingua dell’ascoltatore
Il mio percorso di compositore è sempre stato indirizzato alla ricerca di una forma di comunicazione basata sul linguaggio d’appartenenza. Spesso l’impiego del canto popolare mi offre maggiori possibilità d’identificazione col destinatario del mio lavoro. Preferisco investire sull’emozione forte di un momento musicale che badare alla stesura preventiva di programmi estetici sconfinanti, il più delle volte, nel puro accademismo. Ammiro i musicisti che, attraverso il loro gesto creativo, riescono ad entrare in contatto con chi, di volta in volta, si trovano di fronte.


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