VISIONI (TROPPO) SILENTI
ANTONELLA GANDINI, DESENZANO DEL GARDA 22/01/05 - 20/02/05
Il rapporto tra pittura e fotografia è stato ambiguo e, spesso, conflittuale fin da quando Daguerre mostrò al mondo le prime lastre d’argento, pionieristica conquista della neonata tecnica, che immortalavano la realtà come niente e nessuno aveva saputo fare prima d’allora. A lungo si sono ferocemente scagliate contro la fotografia le opinioni di chi l’ha ritenuta un freddo espediente meccanico, incapace di rappresentare la vera Creazione, perciò non artistico, in quanto privo del genio, del “furore estatico” che ispira i pittori. D’altra parte già dalle origini la fotografia fu utilizzata da diversi pittori come utile ausilio per i loro ritratti o paesaggi ed è questo il caso di Antonella Gandini, pittrice nata a Valeggio sul Mincio (VR) ma che vive e opera a Monzambano (MN) e che ha esposto e continua ad esporre le proprie opere dal 1984, in mostre collettive o personali, come nel caso di Visioni Silenti. Se è vero, come è vero, che Gandini ha scelto, nella recente circostanza, un’esposizione interamente fotografica, lo ha fatto nell’ambito della sua costante ricerca sull’immagine e su “connessioni e strutture di linguaggio liminari tra pittura e fotografia” (come recita il catalogo della mostra) ed è lei stessa ad affermare, sul catalogo di una precedente mostra del 2004, di usare “la riproduzione fotografica come materia del dipingere in una sorta di osmosi tra fotografia e pittura”. Gandini ha sempre utilizzato il supporto fotografico per i suoi quadri ed è chiaro, di fronte alle fotografie, l’intento della sua opera: riflettere sulla dialettica esistere-/essere percepito, sfruttando, nell’analisi dei corpi, le qualità ausiliarie della fotografia nei confronti dell’occhio. Mi riferisco all’istante e all’ingrandimento, abilmente sfruttati da Gandini nel soffermarsi, nei primissimi piani di corpi o di fiori e piante, sulle “pieghe”, le “grinze”, le ombre e le corrispondenze speculari come sarebbe impossibile per l’occhio umano (su questo argomento consiglio le lettura di W. Benjamin, Piccola storia della fotografia in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi) al fine di sostenere ciò che si legge nel catalogo di Visioni Silenti (presentazione a cura di Ivos Margoni): “Vorrei riportare l’attenzione sul corpo umano come oggetto empatico che riceve e trasmette senso non in quanto esibito ma in quanto esistente”. Pur riconoscendo il valore dell’intenzione filosofica nel lavoro di Gandini non posso però affermare di essere stato impressionato dalla mostra, composta da un discreto numero di opere, tutte giocate sull’opposizione di bianco e nero, ma svilita, purtroppo, da un sistema di illuminazione inefficace se non fastidioso per l’osservatore. Il motivo principale per cui si esce dalla Galleria senza essere pienamente soddisfatti dell’evento è latente ma forse per individuarlo ci si può appellare ancora una volta alle parole dell’autrice: “La domanda da porsi di fronte all’immagine non è ‘cosa rappresenta’ ma ‘che cosa mi provoca’”; la risposta, purtroppo, rischia di essere: niente.
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