SHORTBUS

di Ilaria Feole


Sorvoliamo una città di plastilina, in un immaginario piano sequenza: ci insinuiamo nelle finestre di appartamenti abitati da varia umanità e violiamo la loro privacy assistendo a scene di sesso (vero) e masturbazione (non meno autentica). È così che inizia Shortbus, con una sequenza fulminante che, quasi a volersi subito togliere il peso, dichiara immediatamente la sua natura di film pornografico. Porno? Film d’autore? Provocazione? Poco importano le etichette davanti a un film intelligente come Shortbus, che, con molta grazia, delle etichette, delle definizioni e dei canoni si prende gioco. John Cameron Mitchell, già acclamato per la sua opera prima Hedwig – la diva con qualcosa in più, intesse il film con scene di sesso esplicito; ma ciò che davvero mette a nudo è l’anima dei suoi protagonisti. Shortbus non è un film sul sesso, ma su ciò che ci tiene disperatamente attaccati alla vita, sull’amore, sul bisogno di contatto e soprattutto sul bisogno di sentire. È questa la tematica principale cui ruotano attorno le storie dei protagonisti; ciò che li accomuna è l’incapacità di sentire qualcosa di vero nella propria vita. Sofia è una terapista del sesso che vive il paradosso di non aver mai provato un orgasmo; James non riesce a ricambiare (anche fisicamente) l’amore devoto che il suo compagno gli offre, e si butta nel ménage à trois; Severin è una dominatrice di professione, per cui il sesso è bello solo quando è da sola, che dispera ormai di riuscire a vivere una relazione vera. Tutti loro frequentano un locale nel cuore di New York, lo Shortbus, un night labirintico dove tutto è permesso, e dove gli avventori consumano (letteralmente) con tanta placida voracità da non lasciare spazio per lo scandalo. Quando Sofia chiede al proprietario-maîtresse (il sublime travestito Justin Bond, cui spettano le battute migliori) perché tanti giovani tornino nella Grande Mela nonostante sia così costosa, lui sornione risponde: “l’11 settembre, tesoro… è la prima cosa vera della loro vita”. La prima cosa vera, appunto, in una vita priva di reali esperienze, impermeabile, che non permette loro di sentire (e sentirsi). Il proprio corpo diviene allora il Ground Zero delle loro esistenze, cicatrice esposta (non a caso nel film è mostrato attraverso una finestra), vuoto da colmare, macerie su cui ricreare un senso. Nel sesso cercano questo, un impatto, uno schianto, una cosa reale che abbatta la barriera tra se stessi e la vita vera. Per questo il sesso in Shortbus non è volgare, perché è ritratto come il momento più vitale e sincero dell’esistenza (forse l’unico ad essere tale), e c’è una tenerezza spiazzante nel modo in cui la macchina da presa si fa strada tra i corpi degli attori. Il sesso (e la conoscenza, l’esplorazione del proprio corpo) diventa il modo per riappropriarsi di sé, per completarsi; per tornare finalmente ad essere permeabili, anche a costo di soffrirne. Il film si avvale di un cast strepitoso, composto da attori in gran parte sconosciuti (il regista li ha selezionati sulla base di videotape in cui esibivano le loro pratiche sessuali) e diretti con mano sapiente da Mitchell, che sa valorizzare l’aspetto corale. Ma soprattutto è memorabile la sceneggiatura, cui si perdona il finale un po’ facilotto (una sorta di gioioso, irrefrenabile inno al sesso) perché brilla, per il resto del tempo, di rara intelligenza.


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