MADRI ASSASSINE
DIARIO DA CASTIGLIONE DELLE STIVIERE

di Cledis Pasqualini

Da Roma a Castiglione delle Stiviere: Adriana Pannitteri compie questo viaggio per visitare il nostro ospedale psichiatrico giudiziario, l’unico in Italia ad ospitare le madri che hanno ucciso i loro figli. “Nell’immaginario collettivo, negli articoli dei giornali, nelle cronache che sempre più indugiano su queste storie, è soltanto la casa delle mamme assassine” (pag. 13), ma Adriana Pannitteri tenta di capire cosa c’è dietro questo delitto così inconcepibile, chi sono queste donne, pazze?, criminali?, malate?. Condivide con loro momenti di vita all’interno dell’OPG, parla con loro, e diventa testimone della loro sofferenza, del loro cammino alla ricerca di un perché. Adriana Pannitteri nasce a Roma nel 1961. È giornalista e dopo aver collaborato a diverse trasmissioni, lavora al TG1 della Rai dove dal 2001 conduce anche i telegiornali delle edizioni del mattino. Questo è il suo primo libro.

Che cosa l’ha spinta a scrivere il suo primo libro su un tema così delicato e nello stesso tempo duro e agghiacciante qual è il figlicidio?
Mi sono occupata quasi sempre di fatti di cronaca ed è inutile negare che il tema delle madri assassine si è impadronito di televisioni e quotidiani. Ma quante banalità e quanti giudizi sommari ho sentito pronunciare anche dai miei stessi colleghi ?! Ritengo che sia necessario un salto di qualità. Dobbiamo interrogarci su quello che si nasconde dietro ogni avvenimento. E non basta andare dai vicini di casa nei condomini delle città per sentirsi dire “era una famiglia felice e tranquilla”. Oppure ci accontentiamo di una parola ugualmente molto abusata : “il raptus”. Un figlicidio non è mai un raptus.

Leggendo il libro mi ha colpito la sua capacità di identificazione ed empatia verso queste donne colpevoli e vittime e soprattutto il suo non giudicarle. Come è stato avvicinarsi emotivamente a loro e sostenere il racconto dei loro vissuti?
Avvicinarmi a queste donne non è stato facile. Il dolore è stato così forte che quando sono tornata indietro da Castiglione delle Stiviere per molto tempo non sono riuscita a scrivere niente di quei dialoghi. La pagina è rimasta bianca e allora ho compreso che avevo bisogno anche io di elaborare in qualche modo quella sofferenza. Sono madre di una ragazzina e non si può rimanere distaccati. Non ho cercato lo scoop, non ho spinto sull’acceleratore di particolari che sarebbero stati ancora più sconcertanti. Ripeto a me stessa che forse il compito più difficile da svolgere è stato proprio quello di tentare di capire che cosa è accaduto. Non i fatti – già tutti accertati del resto – ma le inconsce ragioni e il percorso mentale che ha condotto queste donne ad uccidere i loro bambini. Figli desiderati, accuditi, cresciuti e infine uccisi. Credo che ci sia tutta la tragicità di un gesto che è troppo semplice definire come il gesto di una madre cattiva. Ritengo che solo e soltanto di madri malate si è trattato e per questo non ci sono giudizi morali da dare o pentimenti di tipo religioso.

Lei crede ci sia nelle confessioni delle donne che ha incontrato una ragione o affetto o non-affetto comune che le avvicina tutte pur nelle loro storie del tutto personali?
Il tratto comune è la solitudine che non sempre è una solitudine materiale e la continua sottovalutazione del loro disagio da parte dei familiari, talvolta anche dei medici e dunque in generale della società che rifiuta il concetto di malattia mentale o al massimo ne accetta la sua formulazione più semplicistica, ovvero il raptus. Se volessimo poi fare anche una indagine di tipo sociologico entrano poi in campo le statistiche. La direzione dell’Ospedale psichiatrico spiega che si tratta in maggioranza di donne provenienti dal nord, una parte del nostro paese nel quale la rete dei servizi sociali dovrebbe essere più diffusa e efficiente. Ma forse al sud – verrebbe da dire – esistono reti informali che riescono almeno per qualche tempo a soccorrere una donna che si trova in difficoltà: una nonna, una zia, una vicina di casa. Ma è un ragionamento che andrebbe ulteriormente supportato anche perché il figlicidio è sempre esistito e alcune volte nascosto dalle stesse famiglie . Sono le cosiddette morti inspiegabili, bambini che muoiono in culla o che cadono da un balcone.

Lei scrive “quelle madri non hanno volti maligni […] chi guarda davvero negli occhi delle madri che stanno male?” La malattia mentale non si crea da un giorno all’altro. Perché secondo lei non vediamo e riconosciamo il disagio intimo e profondo di chi vive accanto a noi tanto da negarlo e ritenere che possa esplodere all’improvviso senza motivo?
Credo che debba essere completamente rivisto il concetto di malattia mentale. Troppo semplice fare la diagnosi per il folle che grida in strada. Ci sono sofferenze profonde che si nascondono in quella che oserei chiamare la follia mostruosa della normalità. Un figlicidio ci deve portare ad esplorare le ragioni profonde che hanno spinto una madre a eliminare quella parte di sé che evidentemente non ha mai accettato, forse la propria stessa nascita. Ma nella nostra società tutto questo viene ritenuto inaccettabile perché le donne devono necessariamente essere dotate di istinto materno. Inoltre c’è un rifiuto totale della malattia mentale della quale ci si vergogna. Per questo quando se ne colgono i segni in chi ci sta accanto si preferisce non vedere. Si teme l’incurabilità e dunque si sprofonda nell’orrore. Io ritengo che invece qualcosa di più potesse essere fatto per quelle donne. Anche la ricerca psichiatrica dovrebbe marciare in modo diverso e rassicurarci sulla possibilità di comprendere la mente umana che non è solo un tunnel buio del quale aver paura. In questi anni si è puntato troppo sulle pasticche della felicità seguendo le scuole di pensiero americane che si sono rivelate a mio parere del tutto fallimentari. Come del resto mi sembrano fallimentari le scuole di pensiero che continuano a rintracciare una origine organica per la malattia mentale. Ma questi sono ragionamenti che lasciamo agli esperti.

Come anche lei ha osservato ormai ci stiamo abituando a cenare ogni sera con la notizia in TV di continui crimini familiari. In che modo (certa) televisione con la sua speculazione sul dolore umano contribuisce a una cattiva informazione e sensibilizzazione sulle malattie mentali?
La televisione e i media in generale hanno una grande responsabilità soprattutto perché ci propongono una enfatizzazione che non si nutre poi di conoscenza profonda. Anche nei salotti televisivi assistiamo a un continuo battibecco sempre tra gli stessi esperti. La continua ripetizione di una commedia nella quale i protagonisti rimangono sempre uguali a se stessi. Mi piacerebbe che su questi argomenti fosse lasciato spazio anche al resto del mondo.


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