LE PAROLE DELL’ARTE
INTERVISTA A VITTORIO BUSTAFFA

di Fabrizio Migliorati

Il punto focale della tua poetica.
È la concezione di classico, più che quella di classicismo, la mia idea guida e devo a questa le caratteristiche interne alla mia pittura, cioè un disegno estremamente frammentato, pieno di segni. Il classico è un’entità imprendibile, difficilmente definibile, ma costantemente presente in tutto il mio lavoro.

Parlaci un po’ della tua formazione.
Ho frequentato l’Accademia di Venezia nella quale era presente la scuola pittorica di Emilio Vedova. Il mio è stato un percorso a ritroso, quindi, dettato da un’esigenza tecnica, emotiva, espressiva: dopo esperienze sull’informale e di tipo concettuale sono tornato a riconsiderare le modalità della pittura tradizionale. Uscendo dall’ambiente veneziano, dopo anni di studi e riflessioni personali, isolato da qualsiasi ambiente, ho tentato di reimparare la pittura.

Ma questa pulsione retrograda, questo ritorno al passato, non è in linea con le varie esperienze postmoderne (Transavanguardia, Anacronismo, Nuovi-Nuovi, Magico Primario)?
Assolutamente no. Il postmoderno rimane nel frammentario, mentre a me interessa il divenire. In realtà, tutta la mia pittura è frammentaria ma da un altro punto di vista. Io sono per una tradizione legata al passato che cerca di imparare da esso, e non di ripresentarlo a mo’ di citazione fine a se stessa. È un lavoro questo in costante mutamento e non segue mai canoni univoci. Cerco un’altra definizione di tempo che quindi non elimini un’affermazione positiva della molteplicità e del divenire delle cose. Si può tranquillamente dipingere neoclassico, ma è un errore voler essere neoclassici. È la pittura in divenire che crea lo stile di volta in volta e non voglio essere io a deciderlo in ultima analisi, mi viene suggerito. Se volessi usare un po’ forzatamente dei termini storiografici, o legati alla filosofia, potrei definire il mio lavoro come un “decostruttivismo pittorico”, un modo di ripensare la pittura, l’arte, il tempo e quindi la vita.

Alcune tue recenti pubblicazioni?
Punteide rappresenta una collaborazione con lo scrittore Giorgio Matteotti, pubblicato nelle edizioni dalla galleria milanese Nuages. In questo caso le illustrazioni si dirigono nel rapporto tra parola e segno, uniti da un nesso che qui è rappresentato dal punto. Il punto di vista, il punto di partenza, il punto e virgola ecc.: lettere e tracce concorrono nella definizione del concetto, non senza una basilare ironia. Verso Catullo (Sometti, 2006) è una traduzione di altissimo livello del poeta latinista Maretti Tregiardini, di alcuni carmi di Catullo accompagnati da miei disegni. Qui si esprime al meglio la concezione di classico che ti dicevo poc’anzi.

So che hai realizzato varie opere pubbliche. Ci vuoi parlare dell’ultima?
Ho lavorato per il comune di Marcaria, per la precisione a un distaccamento comunale situato nella frazione di Campitello, realizzando due grandi dipinti su soggetti petrarcheschi di concerto con lo scultore Pierluigi Ongarato, l’architetto Stefano Santi e sempre Maretti Tregiardini.

Questi progetti, soprattutto l’ultimo, dimostrano una forte collegialità, una ben precisa volontà di collaborazione. Mi sembra tu sia molto vicino alle soluzioni della grande arte medievale, come il Monumento Brenzoni in San Fermo e il Monumento Serego in Sant’Anastasia entrambi a Verona, risultati di lavori condotti a quattro o più mani che si mescolano immolandosi nell’opera.
Sicuramente vi sono molti punti in comune. È giusto però precisare che noi non abbiamo lavorato ad un’unica opera, ma certo siamo stati spalla a spalla nello sviluppo di determinati temi. Si deve ricercare questo tipo di atteggiamento: gli artisti, quando i progetti lo permettono, si devono unire poiché è ovvio, ma mai ribadito a sufficienza, che “l’unione fa la forza”. Non a caso la mia idea di arte è molto legata al concetto di artigianato. E mai come nel Medioevo, la dimensione collettiva (spesso anonima) si è meglio sposata alla minuziosità del lavoro.

Vista la mole di iniziative a cui hai partecipato, è scontato che tu abbia progetti in corso. Bisogna sempre essere in divenire…
C’è un progetto molto importante, promosso dalla Fondazione Ponchiroli e coordinato da Giuseppe Papagno (docente di Storia contemporanea all’università di Parma), provvisoriamente intitolato “Progetto Viadana” che riflette su questa caotica cittadina mantovana proprio nella realtà del suo divenire. Papagno ha riunito un regista-documentarista (Mario Piavoli), uno scenografo e videoartista (Paolo Cavinato), due compositori (Stefano Trevisi e Emanuele Battisti) e il sottoscritto in qualità di pittore-disegnatore per la creazione di un prodotto video. Viadana diviene il modello per leggere il divenire storico: un frammento di colore stinto, una pietra, un gesto sono importantissimi per la stratificazione che creano o che hanno creato. È stato sorprendente vedere come varie teste diverse si sono rapportate ad uno stesso soggetto d’analisi per produrre un risultato finale tangibile che riunisse tutti i linguaggi.

Quando vedrà la luce?
Il prodotto non è ancora finito perché siamo nella delicatissima fase della colonna sonora, si prevede comunque un’uscita entro febbraio 2007. Come dicevo prima, io credo fortemente nella progettualità: potrei definire l’opera come una “costante sperimentazione”. Prima parlavamo dell’arte medievale. Ecco, trovo molto affascinante la sua doppia impostazione: quella di suggerire sempre una terza (o una quarta o una quinta) dimensione e, quella contraria, di portare tutto in primo piano, schiacciando lo spazio. Quello che voglio fare io è mediare queste due polarità. So che è una cosa impossibile, ma ciò che mi interessa è rimanere nell’impossibile. Come diceva Cézanne “sono le cose che non possono avere colore, forma che io cerco”. Io voglio immergermi nell’impossibile per diventare con esso attraverso l’opera, quindi trovare in questo stato diveniente lo specchio dei miei me stessi che non riuscirei mai a conoscere in altro modo e, infine, riconoscermi io stesso come opera.

Un buon obiettivo. Villiers de l’Isle-Adam, nel racconto L’eletto dai sogni, narra di un giovane poeta che crede nelle illusioni. È solo grazie a questo che realizza i suoi sogni, mentre i suoi due amici, che vedono le cose così come sono, sono condannati a discutere di problemi estetici in taverne malfamate per tutto il resto della loro vita. Le illusioni rendono.
Sì, negando il loro apparire e quindi negando un falso stato d’essere, le cose possono trovare una loro specifica realtà. Noi viviamo una vita contraddittoria e quindi sento la necessità di ri-pensare in modalità paradossali.


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