SHIRIN NESHAT

di Eliseo Barbàra

A modo mio anch’io voglio parlare di globalizzazione. Penso che l’arte sia oggi una delle possibili vie migliori per darne una definizione. Tanta arte contemporanea, spesso anche in notevoli manifestazioni internazionali, ha la tendenza a manifestarsi globalmente, ma l’audience globale finisce in realtà per essere l’onnivoro pubblico occidentale. Altre volte si assiste ad esposizioni con artisti provenienti dalle più disparate geografie, meglio se lontane e con nomi da prima pagina. Esotismo, superficialità, ipocrisia a volte, altre invece coraggio, dialogo e confronto. Ad esempio, il mondo musulmano, da qualche anno a questa parte, pretendiamo ormai di conoscerlo bene, a differenza di loro che vogliono addirittura “invaderci”! Ma ne conosciamo solo una facciata che spesso noi stessi ci siamo costruiti e che solo quella vogliamo vedere. Nata in Iran nel 1957 e trasferitasi da giovane a New York dopo la rivoluzione khomeinista, Shirin Neshat, fotografa e video artista, è una delle migliori individualità che si può ritenere faccia un’arte glocale. Hamid Dabashi, nel catalogo della retrospettiva della Neshat al Castello di Rivoli (Charta, 2002), scrive che l’artista “da un lato agisce nell’ambito privato della propria estetica iraniana, dall’altro in quello del pubblico della propria audience globale”. Ma il lavoro della Neshat, dalle prime fotografie ai video fino al suo primo film (che uscirà nel corso del 2007), non è solo estetica. Certo essa è importante, come negarlo? Basta osservare l’affascinante serie di Women of Allah (1993-97) in cui la Neshat utilizza l’iconografia specifica del corpo femminile e infantile, dello chador nero, delle armi (non è da applicare solo l’equazione stereotipata nel mondo occidentale donna + Iran = velo + violenza, ma è il suggerimento di ambiguità e contrasto che unisce il rispetto, la resistenza dell’essere donna in un contesto sociale difficile e amato/odiato). E poi la scrittura. Intensa, pervasiva, minuta, preziosa e incantevole. L’epigrafia (in particolare quella persiana) è un emblema imprescindibile di tutta l’arte islamica a livello sovrarregionale. Una scrittura che invade volti, mani, occhi, piedi (le uniche parti che il velo permette di vedere) e che tramanda ancora il Verbo del Corano e tutta la poesia che la Neshat riesce a trasformare in emozioni obbligate per scelta a confrontarsi con argomenti sociali, religiosi e politici del presente. Shirin Neshat, in un’intervista di qualche anno fa, disse che vede l’”artista come un’espressione della realtà”. Le sue fotografie, come i suoi video, necessitano di qualche sforzo in più per essere capite. Una volta superato l’avvicinamento (affiliazione, neutralità o repulsione) all’estetismo delle sue ambigue immagini, il percorso della comprensione si addentra nel confronto con una nuova (e indubbiamente) facciata di una cultura che non conosciamo e che forse mai conosceremo. E intanto il suo lavoro non è mai stato ospitato in Iran.


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