L’ARTE DEL SOGNO
Una manciata di reminiscenze casuali, un pizzico di dettagli insignificanti del giorno passato, una dose di sentimenti, il tutto mischiato insieme alla musica ascoltata di recente: ecco la ricetta dei sogni secondo Michel Gondry. Quasi una scienza esatta; e rivelatorio è il titolo originale di questo suo terzo lungometraggio, La science des rêves: non l’arte, bensì la scienza dei sogni. L’indole del protagonista Stéphane, infatti, pur con inclinazioni artistiche (è un illustratore), è prettamente scientifica: ama smontare e ricostruire oggetti, inventare marchingegni prodigiosi (macchine del tempo che viaggiano avanti o indietro di un solo secondo, caschi per attuare la telepatia…) e nel suo inconscio, la notte, conduce un programma di “televisione educativa” in cui s’impegna a svelare i meccanismi che regolano i sogni. Proprio in questo show onirico viene illustrata come prologo del film la ricetta dei sogni: da quel momento pare che il regista vi si attenga con devozione, e costruisca il film con gli ingredienti dell’inconscio; i ricordi, le angosce e i sentimenti che si trasformano nel sonno in immagini e situazioni paradossali. Realtà e spazio onirico si compenetrano portandoci nella testa immaginifica e infantile di Stéphane, e quando il film finisce si ha la curiosa sensazione di averlo sognato, e di faticare ad afferrare i brandelli di ciò che si è visto, proprio come accade al risveglio dopo un sogno. Gondry, ex enfant prodige dei videoclip (suoi i video più belli di Bjork, Chemical brothers e White stripes) aveva già raccontato nel precedente Se mi lasci ti cancello una storia d’amore complicata dai percorsi tortuosi della memoria; qui si abbandona al surrealismo per dipingere l’amore impacciato di Stéphane per la vicina di casa Stéphanie. Proiezioni oniriche e realtà si alternano fino a confondersi sullo schermo come nella vita di Stéphane, che riesce ad avvicinare l’amata solo in sogno, mentre nella realtà la loro storia stenta a decollare. Desiderio frustrato e situazioni grottesche: Gondry si presenta come nipotino illegittimo dei maestri dell’avanguardie, e citazioni di Un chien andalou, capolavoro surrealista di Bunuel, occhieggiano qua e là, come un ironico omaggio. Ma il suo è un surrealismo vitale, irriverente, leggero come le scenografie posticce che lo animano: nuvole fatte di cotone, onde di cellophane, telecamere di cartone, funivie costruite con fili di lana colorata… gli effetti speciali del film sono impagabilmente ingenui e artigianali; fatti di carta, stoffa e animazione a passo uno, proiettano lo spettatore nel mondo onirico di Stéphane, dove i pony di pezza prendono vita e i rasoi elettrici si trasformano in ragni spaventosi. Commedia agrodolce in cui i sentimenti sono creature ingestibili e ingombranti quanto i mostri dell’inconscio, L’arte del sogno è anche un (folle) saggio sull’impossibilità dei rapporti amorosi: quando si è innamorati non ci si ferma a ciò che realmente è la persona amata, la nostra mente ne costruisce un’immagine fatta di sogni e speranze, non del tutto esistente ma corrispondente ai nostri più segreti desideri. È quello che succede a Stéphane, innamorato di Stéphanie ma mai appagato dalla sua contingenza reale; il suo amore è svilito dalla povertà di fantasia e possibilità della vita vera. Una gioia per gli occhi e per lo spirito, grazie alla sceneggiatura costellata di battute fulminanti e alle ottime prove di Gael García Bernal (spaesato e candido come un bambino) e Charlotte Gainsbourg, amanti incompiuti, fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni.
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