I LIBRI DELLA CIVETTA

di Flavio Marcolini


I Dialoghi del Ruzante
Aldo Busi
Oscar Mondadori
euro 8,40

Sono in libreria I Dialoghi del Ruzante tradotti da Aldo Busi (premessa di Marco Cavalli), due piccoli gioielli in cui la pirotecnia semantica del geniale scrittore si accosta con effetti mirabolanti alla lingua rustica di Angelo Beolco (1496?-1542), unanimemente riconosciuto come il vertice del teatro veneto rinascimentale, ripresentandoci in tutta la loro freschezza il “Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo” (1529) e il “Bilora” (1530). Nel primo dialogo (al quale il Beolco deve il nome che lo ha consacrato nella storia della letteratura) il protagonista, reduce deluso dalla guerra tra Venezia e la Lega di Cambrai, racconta al compare Menato le proprie vicende, contrassegnate dalla miseria che lo ha spinto a diventare soldato, senza nulla sapere dei campi di battaglia, fiducioso solo di farvi fortuna. Tornato a casa più povero di prima, vorrebbe riavere la sua donna, Gnua, ma lei gli preferisce il nuovo amante che ha almeno la possibilità di sfamarla. Dopo essere stato sonoramente bastonato dal rivale, Ruzante cerca di annegare l’ira disperata per l’amara sorpresa con spacconate vivacemente comiche, che ne rivelano tuttavia la dolente condizione di infelicità. Bilora è un contadino tradito, che se ne va a Venezia per riavere la moglie Dina ormai convivente con l’anziano usuraio Andronico. Pur amando il marito, la donna non accetta di tornare a far la fame a casa sua, rinunciando agli agi di Andronico e alla corte del suo servo Zane. Ubriaco di rabbia, Bilora assale il vecchio e lo uccide con una violenza cieca che assume nella furia del finale la valenza tragicomica di una vendetta sterile. Lo spettro della miseria domina sulla scena, nel quale la morale tutta materialistica della moglie assurge ad una dignità riconosciuta e rispettata dallo stesso marito tradito, anche se le convenzioni sociali di ogni tempo gli impongono di correre inutilmente a riprendersela. Maschere della condizione collettiva dei contadini che si erano progressivamente immiseriti e furono quindi costretti ad affacciarsi sulla scena della storia come classe sociale intruppati nelle cernite, gli antieroi ruzantiani motteggiano il rampantismo dei loro simili, impegnati a loro volta in improbabili scalate sociali puntualmente destinate a venire sepolte dalle slavine che la vita rovescia loro addosso con mala grazia. Busi ha la sorprendente capacità di reinventare la genuinità del babelico pavano nel quale il Ruzante narra questa calda drammaturgia della fame e della guerra. Alla lingua parlata nella campagna padovana nel ‘500 restituisce immediatezza con ininterrotti fuochi di fila fatti di locuzioni, doppi sensi, arguzie, oscenità, litanie, battibecchi, attinti direttamente dal nostro dialetto, con i suoi modi di dire, le espressioni salaci, le imprecazioni, i turpiloqui che hanno ormai piena cittadinanza anche nella lingua italiana grazie alle opere dello scrittore monteclarense. La riuscita parodia dell’inarrestabile degrado culturale del nostro paese è da Busi ben sintetizzata nel finale della Nota al capocomico, laddove, spiegando il senso della sua sistematica storpiatura dei congiuntivi nel testo, spiega come oggi “di nessuno sia più possibile ridere alle spalle dicendo “parli come un libro stampato”, ma per milioni è finalmente meritato il complimento faccia a faccia “parli come un libro stampato oggi”. Come il Beolco, Busi sbeffeggia oggi una società in declino, fatta di formule altisonanti e vacue. Perennemente riottoso, le sfugge come una farfalla libera e creativa allo spillo che vorrebbe trafiggerne il vissuto, le emozioni, le aspirazioni, in una parola la lingua.


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